..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

lunedì 15 marzo 2010

LE MANI NERE / 5

Going Under
Fuori, il lungo corridoio che conduceva al suo ufficio era deserto. L'unica presenza, a volerla considerare tale, era quella del piccolo robot aspirapolvere di forma circolare, che riempiva il locale col suo sottile ronzio mentre eseguiva la pulitura della lunga passatoia di colore blu notte.
Il Presidente rimase sulla soglia, fissando il corridoio ed il piccolo discoide metallico che lo percorreva. Nessun omone in giubbotto da aviere, nessuna musica, niente di niente...
Si sentì cadere addosso una triste quanto ineluttabile consapevolezza... Il suo potere, il suo denaro, i suoi uomini, quelli della sicurezza, per così dire, "ufficiale" ed ancor più quelli che risultavano assunti come promotori (ma che nel proprio taschino portavano un tirapugni in vanadio) gli garantivano l'assoluta invulnerabiltà nei confronti di qualsiasi nemico, dal semplice facinoroso che dovesse aggredirlo per strada, al concorrente in affari che rappresentasse un possibile ostacolo.
Ma chi poteva proteggerlo da nemici in grado di materializzarsi magicamente nel suo ufficio?
Creature eteree, spiriti apparsi dal nulla...
No, non dal nulla...
L'uomo elegante e l'omone somigliante a John Belushi erano fantasmi evocati da una dimensione in cui nessuna pistola di precisione o nessun giudice federale compiacente sarebbero riusciti a difenderlo...
Erano demoni partoriti dalla sua stessa mente.
Già, perché le orrende visioni di morte o le notizie catastrofiche di poco prima non erano le creazioni di un "mago" degli effetti speciali o gli incubi di un tossicodipendente. Erano informazioni ben presenti nel suo cervello, che la ragione quotidianamente provvedeva a "disinnescare", ma che rimanevano allo stato latente in uno strato più profondo del suo subconscio.
La sua coscienza, come l'avrebbero definita i seguaci di un rivoluzionario barbuto massacrato circa duemilacinquecento anni prima. Uno davvero "giusto", che minacciava seriamente di cambiare il mondo, e per questo i potenti dell'epoca l'avevano eliminato inchiodandolo a un pezzo di legno e pensando che il fatto non fosse altro che un piccolo "danno collaterale" per mantenere il potere.
Allo stesso modo, secoli dopo, quell'uomo che ora fissava un corridoio deserto aveva accettato che persone innocenti venissero sacrificate a causa di quel clima di conflitto "tutti contro tutti", di faide tra opposte fazioni che, di fatto, impedisse a qualche possibile oppositore di coalizzare intorno a sé un movimento comune allo scopo di esigere chiarezza, trasparenza, libertà.
In più, se l'uomo si era riscoperto colpevole di quel sangue innocente, il Tycoon ora si scopriva responsabile del crack più colossale della storia. Certamente non solo per quelle, ma anche e soprattutto a causa delle sue azioni, il regno fatato del Quickball della Federazione era crollato come un castello di carte.
E come un sasso che rotola giù dalla china e ne trascina con sé altri fino a diventare una valanga, il fallimento del Quickball aveva portato con sé tutto ciò che gli era collegato... merchandise, media, linee aerospaziali interne della Federazione...
Molto provato, si voltò per tornare alla sua poltrona.
Ma non riuscì a fare un passo, perché immediatamente notò che la poltrona era già occupata.
Era una donna bellissima, dai capelli lunghi e neri e dal viso ceruleo. Addosso portava una tuta borchiata di pelle nera, e sopra un mantello dello stesso colore.
Da quella distanza, non riusciva a vedere chiaramente il fermaglio che chiudeva il mantello all’altezza della gola della donna, ma era sicuro che rappresentasse quel simbolo già visto, quello con le due mani nere tese ad appropriarsi di qualcosa, o a sporcarlo in maniera indelebile.
Il Presidente trasalì; quella donna dal pallore innaturale e dal look decisamente dark – sadomaso gli ricordò inevitabilmente i ritratti, nell’iconografia tradizionale, della Bieca Mietitrice.
La donna, contrariamente ai due visitatori precedenti, non parlava. Lo fissava, seduta in poltrona, con occhi freddi. Un freddo che gli sapeva penetrare fino all’anima, lasciandolo senza parole.
Si ricordò, ad un tratto, di quand’era bambino.
Talvolta si rendeva conto di averne combinata una davvero grossa, e di essere preoccupato per la punizione.
E la parte peggiore erano le lunghe ore in attesa dell’arrivo di suo padre. Un tormento lungo e logorante, che molte volte era peggio della punizione che poi gli veniva inflitta,
Forse mosso da questo ricordo, dopo un tempo che gli era parso lunghissimo, chiese alla donna: “E tu? Tu cosa sei venuta a mostrarmi?”
La donna non rispose.
Si alzò dalla poltrona con fare solenne, e camminò verso di lui.
Se solo quel mattino gli avessero detto che avrebbe trovato una donna in pelle nera nel suo ufficio, avrebbe immediatamente pensato ad una Fetish Queen per un festino organizzato da quei buontemponi dei suoi amici.
Ora, invece, il ticchettio dei tacchi a stiletto sul pavimento del suo ufficio gli sembrava un rimbombo insopportabile; forse quello era il suono, se mai ne avesse uno, del proprio destino che avanza.
“Vieni con me” gli disse con voce inespressiva.
Gli porse la mano come una mamma fa col proprio bambino, e lui la prese istintivamente.
Proprio come un bambino, quando riconosce che per quanto abbia pianto e battuto i piedi, alla fine deve sottostare all'autorità dei suoi genitori.
Quella mano, però, era stranamente fredda. “Fredda come quella di un morto” pensò, ed il pensiero successivo gli fece scorrere un brivido lungo la schiena: “O come quella della Morte stessa”.
La donna lo condusse verso la porta, quella stessa porta che lui aveva richiuso dietro di sé, e piano piano la aprì.
Fuori dalla porta, però, stavolta tutto era avvolto dall'oscurità più totale.
Il primo pensiero, quasi automatico, fu un ridicolo "cazzo, è saltata la luce... Devo chiamare il tecnico...". Poi, dopo un attimo, si rese conto dell'assurdità di quella preoccupazione: stava camminando mano nella mano con qualcosa che, se non è uno spettro, di certo è qualcosa che gli assomiglia molto.
E questo non è una cosa che capita a chiunque, tutti i giorni, come il caffè alla mattina.
Si guardò intorno, e due cose colpirono la sua attenzione: innanzitutto il fatto che non riuscisse a scorgere, attraverso il buio, alcun particolare di quel corridoio a lui ben noto. Altre volte gli era capitato di percorrerlo a luci spente, e ricordava bene come gli fosse possibile intravedere le diverse porte, le pareti, il soffitto. Questa volta, invece, tutto sembrava essere scomparso, annegato in una tenebra totale, capace di assorbire ogni residua luminosità.
Una tenebra densa.
Fredda.
Viscida.
La seconda cosa, in contrasto alla prima, era la nitidezza con cui poteva vedere la donna in nero al suo fianco e se stesso. I due apparivano come illuminati dal sole di mezzogiorno, in piena luce all'interno di quest'oscurità totale nella quale camminavano.
Mentre ancora rifletteva su questi aspetti così insoliti, sentì un suono, dapprima in lontananza poi sempre più vicino. Un suono come di flauti lontani affidati ad un'orchestra di suonatori ubriachi, dove ognuno seguiva la propria partitura in un'assurda cacofonia.

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