Andrew Sullivan, su The Atlantic, parla di «Obama, neocon in chief». Per Jennifer Loven, di Talking Points Memo, si tratta di una «caduta all’indietro verso il bushismo». Secondo Joan McCarter, di DailyKos, è un «voltafaccia sgradevole e probabilmente inutile». E Jane Hamsher, fondatrice di Fire Dog Lake, confida a Chris Cilizza di The Fix (il blog di retroscena politici del Washington Post), che «fin dall’inizio del suo mandato, Barack Obama ha dimostrato un notevole desiderio di occultare i crimini dell’amministrazione Bush, in generale, e i metodi di tortura voluti da Bush, in particolare».
L’ondata di sdegno che attraversa la rive gauche della blogosfera statunitense è univoca e senza appello: la marcia indietro di Obama sulla pubblicazione delle fotografie sui «duri interrogatori di detenuti all’estero» (promessa dall’amministrazione democratica lo scorso 23 aprile) è un atto di codardia politica, nel migliore dei casi, o una dimostrazione di complicità con i crimini bushiani, secondo i commentatori più progressive.
Senza contare la durissima reazione della stessa Aclu (American Civil Liberties Union), dalle cui battaglie nei tribunali basate sul Freedom of Information Act era partita anche la diffusione dei memorandum della Cia sul waterboarding. Per il direttore esecutivo dell’Aclu, Anthony D. Romero, «l’amministrazione Obama ha adottato le stesse tattiche ostruzionistiche e le stesse politiche opache dell’amministrazione Bush», a dispetto delle dichiarazioni pubbliche del presidente sulla necessità di «ripristinare il rispetto della legge e rianimare la statura morale del nostro governo nel mondo». «Se l’amministrazione Obama proseguirà su questa strada – conclude Romero in un comunicato di fuoco pubblicato sul sito internet dell’Aclu che si è diffuso come un virus nei blog della sinistra – non tradirà soltanto le promesse fatte al popolo americano, ma anche i principi fondamentali su cui è stata costruita la nostra nazione».
A fare da contrappeso a questa furia liberal contro la decisione di Obama, sono naturalmente i media vicini al partito repubblicano e al movimento conservatore, che da settimane chiedevano al presidente di ripensarci, per non mettere inutilmente a rischio la vita di soldati americani in scenari di guerra. Il Weekly Standard, per firma di Bill Kristol e di Michael Goldfarb, esprime il proprio appoggio alla Casa Bianca per la seconda volta in due giorni (il primo “apprezzamento” era stato riservato alla scelta di sostituire David McKiernan con Stanley McChrystal al comando delle truppe Usa in Afghanistan). Una mossa che era stata salutata con estremo favore anche da un commentatore anti-obamiano di ferro, come Max Boot in un editoriale scritto per il Los Angeles Times.
Più che l’appoggio di neocon e conservatori in genere, però, a Obama farà molto comodo il consenso crescente che la sua mossa è destinata a garantirgli negli ambienti militari, soprattutto alla vigilia della surge in Afghanistan. Non è un mistero, infatti, che il presidente sia stato spinto a cambiare idea soprattutto dal suo segretario alla Difesa, Bob Gates, che a sua volta è stato convinto dalla “lobbying” incessante di alcuni generali di altissimo livello: il capo dei Joint Chiefs of Staff, Mike Mullen; il comandante Centcom, David Petreus; l’ex comandante delle truppe in Afghanistan, David McKiernan; e soprattutto l’attuale comandante in capo nel fronte iracheno, David Odierno.
David Ignatius, sul Washington Post, si chiede addirittura se la marcia indietro di Obama non possa essere considerata come il suo momento “Sister Souljah”. Ignatius si riferisce alle dure critiche espresse da Bill Clinton, durante la campagna elettorale del 1992, nei confronti di alcuni commenti razzisti (contro i “bianchi”) espressi da una celebre cantante rap dell’epoca (Sister Souljah, appunto, nome d’arte di Lisa Williamson). Con la sua presa di posizione, Clinton si alienò una buona parte dell’ala più estrema del suo partito, ma guadagnò anche quella solida reputazione “centrista” che contribuì non poco alla sua doppia vittoria alle presidenziali. Forse Obama sta proprio cercando di replicare questa strategia.
L’ondata di sdegno che attraversa la rive gauche della blogosfera statunitense è univoca e senza appello: la marcia indietro di Obama sulla pubblicazione delle fotografie sui «duri interrogatori di detenuti all’estero» (promessa dall’amministrazione democratica lo scorso 23 aprile) è un atto di codardia politica, nel migliore dei casi, o una dimostrazione di complicità con i crimini bushiani, secondo i commentatori più progressive.
Senza contare la durissima reazione della stessa Aclu (American Civil Liberties Union), dalle cui battaglie nei tribunali basate sul Freedom of Information Act era partita anche la diffusione dei memorandum della Cia sul waterboarding. Per il direttore esecutivo dell’Aclu, Anthony D. Romero, «l’amministrazione Obama ha adottato le stesse tattiche ostruzionistiche e le stesse politiche opache dell’amministrazione Bush», a dispetto delle dichiarazioni pubbliche del presidente sulla necessità di «ripristinare il rispetto della legge e rianimare la statura morale del nostro governo nel mondo». «Se l’amministrazione Obama proseguirà su questa strada – conclude Romero in un comunicato di fuoco pubblicato sul sito internet dell’Aclu che si è diffuso come un virus nei blog della sinistra – non tradirà soltanto le promesse fatte al popolo americano, ma anche i principi fondamentali su cui è stata costruita la nostra nazione».
A fare da contrappeso a questa furia liberal contro la decisione di Obama, sono naturalmente i media vicini al partito repubblicano e al movimento conservatore, che da settimane chiedevano al presidente di ripensarci, per non mettere inutilmente a rischio la vita di soldati americani in scenari di guerra. Il Weekly Standard, per firma di Bill Kristol e di Michael Goldfarb, esprime il proprio appoggio alla Casa Bianca per la seconda volta in due giorni (il primo “apprezzamento” era stato riservato alla scelta di sostituire David McKiernan con Stanley McChrystal al comando delle truppe Usa in Afghanistan). Una mossa che era stata salutata con estremo favore anche da un commentatore anti-obamiano di ferro, come Max Boot in un editoriale scritto per il Los Angeles Times.
Più che l’appoggio di neocon e conservatori in genere, però, a Obama farà molto comodo il consenso crescente che la sua mossa è destinata a garantirgli negli ambienti militari, soprattutto alla vigilia della surge in Afghanistan. Non è un mistero, infatti, che il presidente sia stato spinto a cambiare idea soprattutto dal suo segretario alla Difesa, Bob Gates, che a sua volta è stato convinto dalla “lobbying” incessante di alcuni generali di altissimo livello: il capo dei Joint Chiefs of Staff, Mike Mullen; il comandante Centcom, David Petreus; l’ex comandante delle truppe in Afghanistan, David McKiernan; e soprattutto l’attuale comandante in capo nel fronte iracheno, David Odierno.
David Ignatius, sul Washington Post, si chiede addirittura se la marcia indietro di Obama non possa essere considerata come il suo momento “Sister Souljah”. Ignatius si riferisce alle dure critiche espresse da Bill Clinton, durante la campagna elettorale del 1992, nei confronti di alcuni commenti razzisti (contro i “bianchi”) espressi da una celebre cantante rap dell’epoca (Sister Souljah, appunto, nome d’arte di Lisa Williamson). Con la sua presa di posizione, Clinton si alienò una buona parte dell’ala più estrema del suo partito, ma guadagnò anche quella solida reputazione “centrista” che contribuì non poco alla sua doppia vittoria alle presidenziali. Forse Obama sta proprio cercando di replicare questa strategia.
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