..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

sabato 20 giugno 2009

IS NOT AN OPTION

Stati Uniti, non è troppo tardiper appoggiare il popolo iraniano
di Paul Wolfowitz
La prima risposta del presidente Obama alle proteste in Iran è stato il silenzio, seguito poi da un cauto, quasi neutrale atteggiamento al fine di evitare “intromissioni” negli affari interni iraniani. Ciò mi fa tornare alla mente la risposta in principio pressoché neutrale di Ronald Reagan alla crisi successiva alle elezioni filippine del 1986. E la risposta inizialmente neutrale al tentato golpe ai danni di Mikhail Gorbaciov nel 1991. Tanto Reagan che Bush riuscirono a mettere da parte la loro sbagliata neutralità abbastanza in tempo da fare la differenza. E per Obama non è troppo tardi per fare lo stesso.
Nel 1986 il presidente filippino Ferdinand Marcos aveva indetto elezioni anticipate contando sul fatto che un’opposizione frammentata gli avrebbe consegnato una netta vittoria che a sua volta gli avrebbe permesso di allentare la tensione proveniente dall’amministrazione Reagan, la quale cercava d’indurlo a realizzare un ampio programma di riforme. Invece, i partiti d’opposizione si unirono all’ombra di Corazon Aquino e fu soltanto grazie a un gigantesco broglio che si riuscì a far venire fuori una “vittoria” per Marcos.
L’11 febbraio, quando il conteggio dei voti non era ancora terminato, Reagan segnalò una posizione neutrale ricordando agli americani che si trattava di una “elezione filippina” e lodando “lo straordinario entusiasmo del popolo filippino per il processo democratico”. Piuttosto che incolpare Marcos per il broglio, che definì “spiacevole”, disse che di brogli potevano essercene stati “da ambo le parti”.
Al tempo io lavoravo per il segretario di Stato George Shultz come suo assistente per l’Asia Orientale e il Pacifico e con lui ho condiviso la contrarietà alle affermazioni del presidente. Per oltre due anni, con l’appoggio del presidente, avevamo fatto attenta pressione su Marcos per le riforme. Reagan stesso, a proposito di Marcos, citò una volta la famosa massima di Lord Acton sul “potere che corrompe” e sul “potere assoluto che corrompe assolutamente”. Nondimeno, l’infelice affermazione di Reagan sui brogli “da ambo le parti” rischiò di mettere gli Stati Uniti dalla parte sbagliata in un momento critico.
Per fortuna Shultz riuscì a convincere il presidente che aveva commesso un grave sbaglio. Il 15 febbraio, la Casa Bianca rilasciò una nuova dichiarazione: “Le elezioni sono state funestate da brogli generalizzati e violenza perpetrati in larga misura dal partito di governo”. Il giorno successivo, sia Marcos che Aquino reclamarono la vittoria. Il 22 febbraio, quando Marcos ordinò l’arresto dei due riformatori chiave, qualcosa come un milione di filippini si riversò nell’EDSA Square di Manila per bloccare gli arresti in una drammatica dimostrazione di “people power”.
L’ultimo messaggio di Reagan a Marcos venne due giorni più tardi, quando il senatore Paul Laxalt, intimo amico del presidente, aveva avvertito che Reagan era contrario a qualsivoglia uso della forza sulla folla e l’aveva sollecitato a “darci un taglio, e netto”. Il giorno successivo Marcos lasciò le Filippine.
Il 19 agosto 1991, in qualità di sottosegretario alla Difesa nell’amministrazione di George H.W. Bush, ho potuto assistere a una replica del copione che fu delle Filippine quando forze reazionarie tentarono un golpe ai danni dell’allora presidente sovietico Gorbaciov e del presidente russo Boris Eltsin. Bush fu inizialmente molto cauto, incerto sui fatti e riluttante a interferire o a inimicarsi un possibile successore di Gorbaciov.
Come risposta, quella mattina il presidente si rifiutò di condannare il golpe definendolo semplicemente uno “sviluppo spiacevole” e si limitò a esprimere un tiepido appoggio a Gorbaciov e ancor meno a Eltsin. Anzi, non fu neanche tra i leader mondiali che aveva cercato di contattare riguardo alla crisi. L’impressione che dava era piuttosto d’essere concentrato a lavorare con la nuova leadership sovietica nella speranza che il suo leader Gennady Yanayev s’impegnasse per le “riforme”.
Benché il segretario alla Difesa Dick Cheney avesse argomentato con forza affinché gli Stati Uniti appoggiassero le aspirazioni pacifiche dei russi, degli ucraini e di altre popolazioni sovietiche, fu Eltsin – con un’intensa lettera personale – a persuadere Bush ad abbandonare ogni affermazione equivoca e a opporsi al golpe. E così nel tardo pomeriggio la Casa Bianca aveva invertito la rotta e condannato il tentato golpe in quanto “sconsigliato e illegittimo”. In seguito Bush chiamò Eltsin per rassicurarlo sul proprio appoggio.
Non che le due situazioni siano identiche, ma la riforma che cercano i dimostranti iraniani è qualcosa che dovremmo appoggiare. In una situazione del genere, gli Stati Uniti non possono far conto sull’opzione del “no comment”. Se viene dall’America, il silenzio è già da sé un commento d’appoggio nei confronti di chi detiene il potere e contro chi contesta lo status quo.
Sarebbe una ben crudele ironia se, nello sforzo di evitare un’imposizione della democrazia, gli Stati Uniti finissero per fare il gioco dei dittatori che impongono la propria volontà alla gente che lotta per la libertà. E a sembrare tanto disperati da abbandonare chi appoggia i nostri principi per intavolare negoziati, non facciamo che indebolire proprio la nostra mano al tavolo delle trattative.
Ciò non vuol dire che abbiamo bisogno di prendere una parte o l’altra in un’elezione iraniana o rivendicare di conoscerne i risultati. Obama può mandare un messaggio molto potente semplicemente mettendo il proprio enorme prestigio personale a supporto della condotta pacifica dei dimostranti e della loro richiesta di riforme. Esattamente il tipo di cambiamento, pacifico e democratico, che aveva elogiato nel suo discorso del Cairo.
Come tutto il resto del mondo, anche il presidente Obama dev’essere rimasto sorpreso dalla magnitudine delle proteste in Iran. Gli iraniani stanno contestando non solo i brogli elettorali, ma anche i crescenti abusi ai danni della popolazione da parte del regime dittatoriale. Non è questo il momento per il presidente di trincerarsi dietro una posizione di neutralità. È arrivato il momento di cambiare rotta.
© Washington Post

Nessun commento: