..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

mercoledì 26 agosto 2009

"UCCIDERE" LA JUVENTUS

«“Uccidere” la Juventus per bloccare Andrea Agnelli» è il primo dei due capitoli dedicati alla Juventus di un libro che nessun editore ha voluto stampare e di cui il quotidiano “Libero” sta pubblicando in questi giorni alcuni capitoli. Come sempre, quando si parla della «Famiglia», quando il racconto è scomodo per parte di essa, il caso vuole che quella storia non emerga, che quel libro, quell'articolo, quel servizio restino confinati in qualche cassetto. Gigi Moncalvo nel suo libro ripercorre buona parte della storia mai raccontata degli Agnelli, prendendo il lettore per mano ed accompagnandolo lungo le tante e tortuose vicende che hanno portato John Elkann a guidare il Gruppo; la madre, Margherita, a rivolgersi ai tribunali e la Juventus in serie B.
I.S.
di Luigi Moncalvo
Oltre a Villar Perosa, tra i simboli della Famiglia di Gianni e Umberto, ce n’è un altro: la Juventus. Anche la storia di questo club è legata a Villar Perosa. Fino a qualche anno fa la squadra andava in ritiro pre-campionato in Val Chisone e la prima uscita ufficiale, a Ferragosto, era una festa per tutti i tifosi. L’Avvocato faceva l’impossibile per esserci ed era la star indiscussa della giornata. Poi i cambi del calendario calcistico, le tournèe estive, i miliardi pagati da località turistiche per ospitare la preparazione, hanno portato la Juventus lontana da Villar Perosa, dove spesso si svolgeva anche il ritiro prima della partite di campionato o di Champions. Un’ala esterna della proprietà, accanto allo stabilimento della RIV, ospitava il pensionato delle squadre giovanili e della prima squadra, un palazzo di tre piani dove sono passati i più grandi fuoriclasse della storia meno recente dei bianconeri. Un passatempo dei calciatori più giovani, che soggiornavamo più a lungo, era andare, in primavera, a raccogliere le ciliegie nella villa dell’Avvocato, ma di nascosto perché i domestici e i contadini non li volevano vedere nella proprietà.
La Juventus è l’emblema di come, oggi, non venga rispettata, come dovrebbe, la memoria, il ricordo, la storia della Famiglia, in particolare di Gianni e Umberto. Così come fa un certo effetto vedere che la cassaforte del gruppo, la “Dicembre”, per la prima volta in quasi un secolo non annovera più un Agnelli, dopo che per tanto tempo le azioni sono state appannaggio esclusivo solo di chi portava quel cognome, allo stesso modo fa un effetto ancora più grande vedere che nel Consiglio di amministrazione della Juventus, e comunque nella parte gestionale e direttiva, da anni non è presente nessun Agnelli.
Margherita certo non si occupa di calcio, ma un Agnelli c’era e ci sarebbe almeno per rinverdire e conservare questa tradizione di famiglia. Si tratta di Andrea, figlio di Umberto, che da quasi un anno ha lasciato il gruppo, pur conservando azioni dell’Accomandita, vive a Londra con la madre Allegra, e si è messo in proprio. Un gesto certo non privo di sfumature polemiche. Anche perché Andrea aveva una grande chances per assumere incarichi importanti e soprattutto per mettere in luce la sua bravura e il DNA comune a suo padre Umberto e a suo fratello Giovanni jr. E qui occorre raccontare una serie di episodi che mettono in giusta luce una vicenda assai controversa che riguarda proprio la Juventus, e vede come protagonisti John, Gabetti, Grande Stevens e come vittime Andrea e il club tanto caro a quattordici milioni di tifosi.
La storia è questa. Al momento della morte di Umberto, 27 maggio 2004, sta terminando l’ennesimo buon campionato della Juventus. Sotto la guida dell’amministratore delegato Antonio Giraudo e del direttore generale Luciano Moggi - il presidente è Franzo Grande Stevens e gli hanno dato quel posto dopo la morte dell’avv. Vittorio Chiusano -, i bianconeri terminano il campionato conquistando il terzo posto. Tuttavia c’è un problema: l’allenatore Marcello Lippi sta per lasciare, andrà a guidare la Nazionale. Giraudo e Moggi, i due personaggi più rappresentativi della cosiddetta “triade” juventina - il terzo, Roberto Bettega, si è sempre mantenuto più defilato e aveva un ruolo meno importante, ma che Moggi definiva di “nostro ambasciatore nel mondo” -, proprio nelle ore in cui Umberto sta morendo, stanno tornando in auto a Torino. Hanno in mano un prezioso contratto che lega l’allenatore Fabio Capello alla Juventus per i successivi cinque anni. Il tecnico friulano, che oggi è il responsabile della nazionale inglese di calcio, rappresenta un grosso colpo per il futuro della Juve. E infatti la squadra avrebbe poi vinto altri scudetti sotto la sua guida tecnica.
Mentre Giraudo sul suo telefono cellulare sta per comporre il numero della Mandria per dare la bella notizia al dottor Umberto, vediamo come era stato possibile strappare Capello alla “Roma”, cui era legato da un contratto che sarebbe scaduto l’anno successivo. La vicenda, inedita, l’ha raccontata il famoso giornalista Giorgio Tosatti, figlio d’arte il cui padre era morto nella sciagura aerea di Superga poiché viaggiava nello stesso aereo del “Torino”. Tosatti è sempre stato, giustamente, considerato un autentico “guru” del mondo del calcio. Editorialista del “Corriere della Sera”, personaggio televisivo di prima grandezza e anchor della “Domenica Sportiva”, indiscussa autorità ascoltata e riverita dai potenti del mondo del calcio, egli rappresentava un punto di riferimento obbligato per tutte le grandi decisioni sportive. Tutto questo fino al momento della sua morte, avvenuta nel 2006 per una crisi di rigetto cardiaco dopo un delicato e difficile trapianto al quale fino all’ultimo Giorgio non avrebbe voluto sottoporsi.
A metà maggio del 2004, Tosatti riceve una telefonata da Giacinto Facchetti, il più stretto collaboratore del presidente dell’Inter, Massimo Moratti, reduce da un ennesimo deludente campionato che, nonostante investimenti di centinaia di milioni non aveva prodotto alcun risultato. “Giorgio, ho bisogno del tuo aiuto”, esordisce Facchetti. Racconta che vorrebbe confermare, come allenatore dell’Inter, Alberto Zaccheroni subentrato a Hector Cuper per le ultime partite. Purtroppo la posizione di Facchetti non è vincente: Moratti vuole Roberto Mancini, il giovane allenatore che sta per lasciare la Lazio, mentre Marco Tronchetti Provera, il vicepresidente, dice che bisogna puntare sul “migliore di tutti”, cioè Capello. Facchetti è d’accordo su Capello ma sa che è legato ancora per un anno alla Roma e non vuole fare scorrettezze allacciando una trattativa. Facchetti chiede a Tosatti se può essere lui a sondare Capello e vedere se si può sciogliere il contratto con la Roma senza creare problemi.
Tosatti si mette subito all’opera. Capello è interessato, va a parlare col presidente della “Roma”, Franco Sensi, da alcuni mesi non prende lo stipendio, la Roma ha problemi di liquidità, forse esiste uno spiraglio. Capello chiama Tosatti poche ore dopo: “Siamo arrivati a un accordo. Sono libero, ma solo per dieci giorni, di cercarmi un’altra squadra. Se la troverò mi dimetto, rinuncio agli stipendi arretrati e libero la Roma. Di’ a Facchetti che aspetto una telefonata, ma entro dieci giorni”.
Tosatti chiama il general manager dell’Inter e lo informa, “ma fai presto”. Facchetti risponde in modo meno entusiastico di quanto Tosatti si aspettasse: “Lo so, sai come vanno le cose qui all’Inter. Tutto è sempre così complicato…”. “Non fatemi fare brutte figure”, replica Tosatti un po’ contrariato. Il suo presentimento si rivela esatto. Dopo otto giorni Capello lo richiama: “Giorgio, qui c’è qualcuno che mi prende in giro. Non mi ha telefonato nessuno dell’Inter…”.
Tosatti è furibondo: “Se c’è qualcuno che si sente preso per i fondelli quello sono io. Penso io a sistemare le cose”. Compone il numero di Luciano Moggi e gli dà la “dritta”, dopo avergli raccontato tutto.
Moggi non aspetta altro. Sta per chiudere con Didier Deschamps, ma il francese non lo convince troppo. Ha provato a cercare l’“allenatore perfetto” ma non lo trova. Arsen Wenger dell’Arsenal non vuole lasciare l’Inghilterra. Ha sondato Cesare Prandelli, ma gli è sembrato troppo remissivo, si accontenta di un ingaggio da poco, non ha chiesto giocatori particolari, gli è parso privo delle ambizioni necessarie: probabilmente a un ex giocatore della Juve basta sedersi su quella prestigiosa panchina per sentirsi appagato. Deschamps alla fine è sembrato più motivato, più grintoso, ha fatto una buona impressione anche al Dottor Umberto. Ma la firma sul contratto non c’è ancora poiché il francese si è messo a questionare su alcuni giocatori, li vuole a tutti i costi, Moggi ha saputo che fanno parte della “scuderia” dello stesso procuratore dell’allenatore. E la cosa non gli piace.
In questo quadro, Fabio Capello è l’allenatore perfetto. Moggi e Giraudo chiamano Umberto: “Faccia lei, comandante. Quello che fa lei va sempre benissimo”. Moggi fa subito la telefonata a Capello, si scambiano via fax le bozze del contratto, si vedranno il pomeriggio successivo a Milano. Il giorno dopo una stretta di mano suggella la positiva conclusione della trattativa: Fabio Capello è il nuovo allenatore della Juventus per i prossimi cinque anni.
E’ sera quando Giraudo e Moggi in macchina stanno tornando a Torino. “Chiamiamo il Dottore”, dice Moggi. Giraudo guarda l’orologio: “Sono quasi le dieci, starà dormendo. Diciamoglielo domattina”. In quelle settimane il Dottore era sottoposto a cure intense per la malattia e non lo si poteva disturbare. Pochi chilometri, una manciata di minuti e il telefonino di Giraudo suona. E’ Allegra, la moglie di Umberto. “E’ morto? Donna Allegra, ma quando è successo?”. Giraudo e “il Comandante” apprendono così la notizia della morte del loro vero e unico punto di riferimento. Lo hanno chiamato per dargli la bella notizia sperando di alleviare in qualche modo il suo dolore, e invece Umberto muore senza sapere che quei due hanno fatto l’ennesimo grande colpo per la sua Juve.
Il silenzio scende sul Suv coi vetri fumé. I pensieri volano altrove, Giraudo capisce immediatamente che senza Umberto le cose cambieranno anche per la “triade”. Il dolore per la scomparsa dell’uomo con cui ha lavorato tutta la vita, cui è stato vicino per quasi vent’anni cancella ogni pensiero e ogni preoccupazione per il futuro. Moggi sta anche dimenticando di chiamare Tosatti per informarlo di tutto e ringraziarlo.
La Juventus è stata sempre una sorta di “incombenza” riguardante il fratello minore di Gianni, un po’ com’era avvenuto per Edoardo, il loro papà, col Senatore che doveva pensare ad altro. Umberto ne era stato il presidente in giovane età, se n’era assunto oneri ed onori anche in tempi più difficili, era consapevole che in vetrina c’era l’Avvocato, a Gianni chiedevano sempre pareri e battute, ma alla fin fine era lui a doversi sobbarcare la gestione con un ruolo che poteva apparire defilato e dietro le quinte ma che non lo era.
Quando, alla fine del 1993, Gianni Agnelli accettò l’aiuto di Mediobanca e di Enrico Cuccia per risollevare le sorti della FIAT, piombata in una delle crisi più gravi della sua storia, dovette accettare un compromesso. Per far fronte alla pesante situazione finanziaria fu varato un maxi aumento di capitale e fu imposto l’ingresso di nuovi soci “importanti”, tra cui Deutsche Bank e Generali. Non solo. Il vero prezzo che l’Avvocato dovette pagare fu la promessa e l’impegno di non lasciare a Umberto la presidenza del gruppo, e quindi di rimanere in sella insieme a Cesare Romiti. Il passaggio di consegne tra Gianni e Umberto era già stato stabilito all’interno della famiglia, ma il veto imposto da Cuccia, che non era mai stato in buoni rapporti con Umberto, costrinsero l’Avvocato e il Dottore a un compromesso che prevedeva per quest’ultimo il ponte di comando della “sola” IFIL. A margine di questo accordo, che segnò una svolta nei rapporti tra i due fratelli, l’Avvocato accettò che Umberto, a titolo di parziale risarcimento, prendesse anche le redini della Juventus, che avrebbe gestito in modo del tutto autonomo e indipendente.
Umberto aveva le idee chiare e mandò uno dei suoi uomini di fiducia, Antonio Giraudo a occuparsi della Juve. Il club in quel momento richiedeva sacrifici economici troppo pesanti per le casse del Gruppo, il club stava vivendo il crepuscolo della gestione paternalistica di Giampiero Boniperti, quella vecchia bandiera della Juve aveva fatto il suo tempo e ormai non riusciva a districarsi tra procuratori, agenti, diritti televisivi, bilanci, erano lontani i tempi in cui impiegava pochissime ore, nel ritiro precampionato di Villar Perosa, per far firmare i contratti ai giocatori, “prendere o lasciare, questa è la Juve”. Il primo passo di Umberto fu quello di trasformare la squadra in una azienda modello, dove tutto fosse pianificato e organizzato per grandi obiettivi. Incaricò Antonio Giraudo di occuparsi dell’area amministrativa, a Luciano Moggi fu affidata la gestione sportiva, Roberto Bettega fu assegnato alla vicepresidenza. “Ho sempre in testa la voce del Dottor Umberto – ricorda Moggi -. “Comandante, allora chi compriamo?”. Comandante, mi chiamava comandante. Ma il comandante vero era lui. Non ho mai lavorato con una persona così, con le sue capacità manageriali e organizzative, la sua intelligenza. Ha introdotto un sistema nuovo di lavorare, anche nei minimi dettagli la Juventus era organizzata come una vera e propria azienda. Ogni mese io e Giraudo andavamo all’Ifil dove con una lavagna luminosa dovevamo illustrare la situazione finanziaria, spiegare tutto il lavoro fatto negli ultimi trenta giorni e le prospettive per i successivi trenta, guardando sempre al budget e agli obiettivi prefissati. Raramente siamo andati fuori dai binari, per dodici anni la Juventus ha funzionato come un orologio svizzero e il merito è tutto di Umberto. Era un piacere e una bellezza, per un come me abituato a lavorare con società sempre al limite e sempre piene di problemi è stata un’autentica sorpresa. Umberto voleva sempre essere il primo in tutto, questa carica e questa volontà l’ha trasmessa anche a me. A noi tutti. Era una grande squadra, dall’ultima segretaria al primo dirigente. “Tutto bene, comandante?”, mi domandava ogni volta. Tutto benissimo. E non aveva neanche la voglia di apparire o dimostrare. Non ne aveva bisogno. Non gli interessava. “Comandante, chi si compra?”, mi chiedeva un giorno. Poi, pensando ai bilanci, mi richiamava un istante dopo per aggiungere: “Comandante, ma poi chi si vende?”.
Anche l’Avvocato è entusiasta di quello che accade. Vede arrivare grandi campioni a basso prezzo, rimane sorpreso dall’abilità di Moggi nella campagna acquisti, le vittorie continuano ad arrivare copiose, senza spendere troppo, e questo basta. Un giorno a Londra, l’Avvocato viene avvicinato dal giornalista Tony Damascelli che lo stuzzica: “Quanto vi costa mantenere la Juve?”. “Fino ad ora era stato un problema. Adesso, con questi due, sta diventando un affare!”, replica Gianni Agnelli.
“Quei due” ci sanno fare. E lo dimostrano anche negli anni successivi regalando le ultime soddisfazioni sportive all’Avvocato e Umberto prima della loro morte. In quel 2004 hanno costruito la Juve più forte della storia, destinata a vincere e a dominare per molti anni. La scomparsa improvvisa di Umberto, colui che fa loro da scudo, è un brutto colpo. “Se fossero ancora in vita non sarebbe successo niente di tutto questo. Ne sono più che sicuro. Loro avrebbero avuto la forza per arrivare alla verità, per disinnescare questa bomba a orologeria piazzata nel cuore della Juventus. Me lo dicono mille sfumature, centomila frammenti di situazioni che ho vissuto dentro la società. Da quando sono morti il Dottore e l’Avvocato, tutto è diventato più fragile, io e Giraudo eravamo più soli. E senza protezioni”, dice Luciano Moggi.
Se Giraudo era legato soprattutto a Umberto, Moggi piaceva sia all’Avvocato che al Dottore, e viceversa. Dice: “Ripenso ai consigli degli Agnelli, alle idee e alla saggezza, ripenso a quegli anni quando lavorare con loro era un divertimento, una gioia, una soddisfazione. Classe, competenza e coraggio: avevano tutto. Quella stagione della Juventus è irrepetibile, nessun altro saprà fare quello che hanno fatto Umberto e Gianni. Erano diversi, profondamente diversi. Grande manager l’uno, più carismatico l’altro: li univa una passione straordinaria. Per la vita, per la Juve, per tutto. Non avevo mai conosciuto persone così. Ho letto spesso sui giornali, e ogni tanto la ritrovo da qualche parte, una frase dell’Avvocato che viene scritta e riscritta per danneggiare quel poco che resta della mia immagine e del mio lavoro. Narrano i denigratori che, saputo del mio arrivo a Torino, l’Avvocato avrebbe ironizzato: “E’ giusto così, lo stalliere del re deve conoscere i ladri di cavalli”. Riletta oggi è una frase che non mi offende, anzi mi esalta. E’ quasi una profezia. L’Avvocato conosceva benissimo il mondo del calcio, sapeva tutti i particolari delle insidie che si nascondevano fuori dal campo. E dei tanti ladri di cavalli che circolano in questo ambiente. Aveva scelto una persona per costruire la nuova Juventus, ma anche per difenderla e proteggerla dai colpi bassi e dalle imboscate. Che sono tante, lo garantisce Moggi. E poi l’Avvocato aveva la battuta più svelta della mia, tra noi era una bella lotta. Un duello continuo all’ultima ironia. Una mattina mi chiama alle cinque e mezza per dirmi: “Legga “La Stampa” e se le avanza qualcosa si ricordi di me”. Non nascondo di essere rimasto un po’ sorpreso. Di solito tra noi si parlava di calcio, lui dava giudizi sui giocatori, voleva confrontarsi sugli obiettivi di mercato. Quella frase sibillina mi incuriosì al punto di uscire per cercare un’edicola aperta nella piazza davanti alla stazione di Porta Nuova, centro metri da casa mia. Faceva un freddo polare, sembrava un esquimese. Apro il giornale e leggo. Un sondaggio tra le signore rivela: “Moggi è uno degli uomini più sexy del mondo del calcio”. Chiamo casa Agnelli e replico: “Purtroppo di quella roba non avanza mai niente, caro Avvocato. Devono avermi scambiato con mio figlio”. E giù risate.
“Questo era il nostro rapporto. Serio, serissimo e costruttivo quando c’era da parlare di calcio e della Juve. Ma spesso anche ironico e divertente come si fa tra vecchi compagni di scuola. L’Avvocato resta inimitabile, quindi essere oggetto delle sue battute argute in qualche modo voleva dire essere tenuti in considerazione. E, del resto, la dimostrazione della stima l’avevo già ricevuta due anni prima senza che nessuno avesse saputo un bel niente. C’era un filo che ci legava, lui sapeva come facevo il calcio io. E che persona sono. Era il 1992, stavo al Torino di Borsano. In pieno caos, naturalmente. Ricordo il giorno, ma non la data: era un mercoledì. La sera il Toro giocava in Coppa Italia contro la Lazio, ero nella hall di un albergo romano quando mi squilla il telefonino. Era una delle segretarie dell’Avvocato, voleva fissarmi un appuntamento per il pomeriggio. Ho fatto due calcoli al volo, pensato agli orari dei voli, ma non c’era niente da fare. Purtroppo fui costretto a rinunciare, ero l’unico dirigente presente, non potevo lasciare la squadra sola con l’allenatore. Chiesi di rinviare al giorno successivo. A un’altra ora. A un’altra data. A quando voleva lui. Non ho sentito più nulla, ma ho saputo tutto. La mattina del giorno dopo, un giovedì, c’era un programma un consiglio di amministrazione della Juve. All’epoca i bianconeri erano in difficoltà strapazzati dallo strapotere del Milan di Berlusconi e Gianni Agnelli voleva battere strade nuove, cambiare strategie di mercato e gestione per cercare di tornare a competere anche senza grandi investimenti finanziari. Erano gli anni duri della grande crisi Fiat, mettere soldi nel calcio non era né logico, né corretto, né possibile. Gli sembravo l’uomo giusto e anche senza avermi ancora incontrato illustrò ai consiglieri le sue idee. Fu sconsigliato. Lo invitarono a lasciar stare e gli spiegarono che io ero indagato per un’altra vicenda ridicola: avrei omaggiato gli arbitri che dirigevano il Torino in coppa offrendo compiacenti interpreti. Donne, naturalmente. L’Avvocato non lo sapeva, i consiglieri lo invitarono a lasciar perdere l’ipotesi Moggi politicamente non corretta e sconveniente. E così fece. Peccato che poi sarei stato assolto dal tribunale di Torino, peccato che quelle fossero davvero interpreti. Se poi subivano il fascino del fischietto era forse colpa mia? E se gli arbitri ci sapevano fare beati loro.
“Due anni dopo mi ha chiamato il fratello Umberto, senza volerlo hanno avuto la stessa idea. Con l’Avvocato ci siamo comunque ritrovati, evidentemente era destino che finisse così. Un destino fantastico. Avere la sua attenzione era gratificante. Spesso mi chiamava alle cinque e mezzo del mattino, ma io ero abituato alle alzatacce. Nei momenti più delicati, ma anche in quelli più felici mi chiamava in continuazione, dieci, quindici volte il giorno. Da qualunque parte del mondo si trovasse. Voleva sapere tutto della squadra e non soltanto la formazione. Quando c’era qualche giocatore non al massimo dava preziosi consigli per rimotivarlo. Durante il mercato aveva sempre da suggerire qualche nome interessante.
“L’Avvocato era perfettamente in linea con il mio modo di vedere il calcio: nessuna follia di mercato, buoni giocatori sì, ma con l’occhio sempre attento ai bilanci. Poi, anche lui condivideva la filosofia del calcio moderno. Non erano più i tempi romantici del legame eterno con i giocatori, lui era affezionato a Platini, ma dopo ha sposato il mio motto: “I giocatori passano, la società resta”. Condivideva anche il mio modo di costruire le squadre, abbiamo fatto lunghe discussioni su giocatori del passato e del presente, sulle loro caratteristiche, sul modo di farli giocare. Non è vero, come ha sempre scritto qualcuno, che all’Avvocato piaceva il gioco offensivo, i giocatori di fantasia e storie del genere. Lui voleva le squadre con giocatori geniali perché gli piaceva divertirsi, amava le giocate fantasiose, ma sapeva perfettamente dell’importanza dei gregari. Le grandi squadre dovevano essere equilibrate, lo ripeteva sempre: Ci vogliono anche i Furino. Anzi, quelli sono fondamentali”. Capiva il calcio e capiva gli uomini”.
Moggi conclude i suoi ricorsi: “Ho sempre nel cuore e negli occhi l’ultima volta che l’ho incontrato. Era una giornata fredda e il freddo di Torino a volte entra dentro. Quando ci ripenso avverto ancora i brividi. L’Avvocato chiamò me e Lippi. Ci voleva vedere, ci voleva parlare, ci voleva congedare come fa un grande capitano con la sua truppa. Con grande dignità e un’apparente, straordinaria normalità, non fece una parola della malattia, della paura della morte e dell’angoscia che doveva avere dentro. Era sereno. Prima di salutarci disse a mezza voce: “Chissà se vi rivedrò ancora”. Morì il giorno dopo. Quelle parole vivono ancora nella mia mente lievi come una carezza, pesanti come un macigno”.

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