..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

giovedì 19 agosto 2010

YES WE CAN, BUT MAYBE WE SHOULDN'T

Barack Obama aveva la straordinaria capacità di entusiasmare i suoi e di ammaliare gli avversari. Predicava la necessità di una sola America e costruiva ponti per sanare la frattura ideologica tra i liberal e i conservatori divorati dai sedici anni di Bill Clinton e George W. Bush. La sua biografia personale, i modi pacati e l’abilità quasi cinematografica di presentarsi come l’uomo nuovo confermavano il miraggio che l’America avesse finalmente trovato il suo redentore.

Due anni dopo Obama è diventato un presidente che fa torcere le budella ai sostenitori e schiumare di rabbia gli oppositori. Il profeta, il messia, il superman che avrebbe dovuto guarire i mali del paese è stato disarcionato. E’ diventato un politico normale, come gli altri, costretto a parare i colpi non solo dell’opposizione, ma anche della sua parte.
La parabola politica porta dritti al punto. Com’è possibile che ora riesca a scontentare tutti, sempre e comunque, di destra e sinistra, moderati e radicali, amici e nemici? Chi è Obama? Quanti ne esistono: uno, nessuno o centomila? In campagna elettorale le sue posizioni politiche non erano diverse da adesso, ma non erano considerate ambigue. La meravigliosa confezione in cui erano avvolte gli garantiva paragoni con John Fitzgerald Kennedy e Ronald Reagan, con Franklin Delano Roosevelt e Abramo Lincoln. L’America era innamorata di lui. La stampa lo raccontava come mito, fenomeno, icona. Ogni cosa che faceva o diceva era sempre storica, epocale, profetica. Anche se in netta contraddizione con un’altra cosa sempre storica, epocale e profetica che Obama aveva pronunciato la settimana precedente.
Quei tempi sono finiti. I giornali rumoreggiano. La conservatrice FoxNews non gliene fa passare una. Ma fa ancora più male Msnbc, la tv specializzata nel manganellarlo da sinistra. La destra lo accusa di essere un socialista, la sinistra di aver venduto l’anima a Wall Street. I conservatori dicono che è un estremista radicale, i liberal sostengono sia un moderato alla ricerca di compromessi. I falchi pensano abbia capitolato di fronte al nemico, le colombe dicono che è una copia carbone di Bush. Non si può dire che abbia tradito le promesse elettorali o non sia stato capace di realizzare il programma di governo. Sono pochi i presidenti che possono vantare in così poco tempo un bottino di riforme, di interventi legislativi e di attività internazionali come quelle di cui Obama è stato protagonista.
Eppure la magia è svanita. A ogni riforma perde consenso. A ogni intervento calano i sondaggi. A ogni posizione di principio segue una timida marcia indietro. Obama è semplicemente Obama, un abile politico di Chicago. Non un semi Dio. Non un santo. Non un prestigiatore. La riforma sanitaria non piace né ai repubblicani né ai democratici. I primi la considerano il pilastro di un’incipiente rivoluzione statalista. I secondi credono che Obama abbia sprecato l’occasione di cambiare il sistema sanitario americano. Stessa cosa per l’intervento pubblico a sostegno dell’economia. I liberisti dicono che è stato un gigantesco spreco di denaro, i progressisti gli imputano di non averne speso abbastanza. A parole è il presidente che ha smantellato l’architettura ideologica, giuridica e militare della guerra al terrorismo. In realtà ne è il continuatore più rigoroso, se non addirittura chi ne ha ampliato il raggio. Il capo del Pentagono è lo stesso di Bush, così come i generali che guidano le truppe sul campo. Il disimpegno dall’Iraq lo ha stabilito il suo predecessore. Le truppe in Afghanistan sono state triplicate. I bombardamenti in Pakistan procedono a ritmi settimanali. La guerra segreta è stata estesa a dodici paesi. La Cia è tornata ad avere la licenza di uccidere. Guantanamo è ancora aperto, così come il carcere di Bagram, in Afghanistan. Alcuni detenuti non hanno diritti processuali e rimarranno a vita in galera. Gli altri saranno processati con le corti militari speciali volute da Bush. Continuano le rendition. Il Patriot Act è stato rinnovato. Il bilancio del Pentagono non è stato mai così grande.
Il Washington Post di tre giorni fa titolava: «Sull’istruzione, Obama è come Bush». Il Wall Street Journal, qualche settimana prima: «Obama ha screditato e poi usato alcune delle politiche di Bush sulle trivellazioni». Commenta il blogger Andrew Sullivan, suo elettore: «Obama è molto più conservatore del suo predecessore».
E’ Nobel per la pace, ma fa la guerra. E’ il paladino dei diritti civili, ma è contrario al matrimonio gay e licenzia dall’esercito gli omosessuali dichiarati. E’ l’alfiere della politica ambientale, ma ha rilanciato l’energia nucleare. E’ il campione della trasparenza al governo, ma i giornalisti si lamentano più di prima. E’ laico, ma pontifica sul significato salvifico della preghiera e finanzia le associazioni religiose di carità. Avrebbe dovuto restaurare l’equilibrio tra potere esecutivo e legislativo, ma ha rafforzato i poteri della Casa Bianca. E’ il simbolo delle politiche pro immigrazione, ma quest’anno saranno 400mila i rimpatri forzati di clandestini. E’ di sinistra, ma è favorevole alla pena di morte per gli stupratori di bambini, sostiene il diritto a portare le armi e non firma il trattato contro le mine antiuomo. Obama ha i titoli per chiudere l’era delle discriminazioni razziali, ma in pochi mesi ha erroneamente dipinto come razzista un poliziotto bianco e poi ha licenziato una funzionaria nera che era stata ingiustamente accusata di razzismo da un blogger conservatore.
L’ultimo esempio è quello della moschea di Ground Zero. Obama ha fatto un grandioso discorso di apertura culturale, di tolleranza religiosa e di rispetto del diritto a costruire la moschea, ma il giorno dopo ha precisato di non aver approvato il progetto. «E’ strano vedere Obama essere meno chiaro di Bush su questa cosa», ha scritto ieri Maureen Dowd sul New York Times. «Mi manca George W. Bush», «Obama è un codardo» ha scritto un altro suo sostenitore di sinistra, Peter Beinart. Obama ha cambiato il suo slogan, ha scherzato il comico Jon Stewart. Non è più “Yes, we can”, ma “Yes, we can, but maybe we shouldn’t”. Sì, possiamo farlo. Ma forse è meglio di no. Il ritratto efficace di un politico che forse nel cuore è davvero radicale e nel cervello decisamente più conservatore, ma che nella pratica di tutti i giorni dimostra di essere accorto, moderato e centrista.

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