Paolo Madron per il Sole 24 Ore
Ancora prima che venisse presentato il piano industriale un noto banchiere (Profumo, ndD), uno di quelli che non ha condiviso il modo in cui a dicembre sono stati nominati gli attuali vertici della società, andava confessando privatamente i suoi dubbi sul futuro della Telecom. «Quando agli incerti del destino si sommano una serie di errori marchiani l'epilogo non lascia scampo». Perciò, era la sua conclusione, «l'Italia che ha già detto addio alla chimica, all'informatica, che si interroga scettica sul futuro dell'alimentare e sta per congedarsi dalla sua compagnia di bandiera, perderà inevitabilmente anche il suo colosso delle telecomunicazioni». E non ci sarebbe nulla di strano se a questo punto, avendo raggiunto inusitati minimi di Borsa, qualcuno non stesse pensando di accelerarne la dipartita, con un colpo di mano che oltretutto avrebbe l'indubbio vantaggio di cadere in un momento in cui il Paese è praticamente senza Governo. Morale del banchiere: quando le cose iniziano male, assai raramente finiscono meglio.
Di questa Telecom è già stato detto e ridetto che è figlia di una privatizzazione disgraziata, realizzata con la fretta di chi deve fare cassa e con un formula, quella del nocciolo duro (che poi nella fattispecie era un nocciolino) che sin da subito appariva solida come un castello di sabbia. Eppure, sempre invocando il destino cinico e baro, poteva andare molto diversamente.
Se gli Agnelli, per esempio, che dopo l'addio dello Stato comandavano nell'azienda dei telefoni con appena lo 0,6%- il famoso pugno di azioni come sprezzantemente lo definì l'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema che già stava guardando all'irrompere di capitali e capitalisti padani non si fossero incaponiti nel tenere l'automobile, sarebbero diventati loro i padroni. Il dibattito tra Gianni e suo fratello Umberto fu molto aspro. Il secondo, che sul business delle quattro ruote aveva sempre nutrito un proverbiale scetticismo, premeva per vendere tutta l'Auto alla General Motors, non solo il 10% come poi avvenne, e reinvestire in Telecom i 20 mila miliardi incassati. L'Avvocato, che tutto voleva meno che passare alla storia come quello della famiglia che aveva liquidato un mestiere centenario, non lo ascoltò, così come non diede retta a Enrico Cuccia che senza giri di parole lo aveva invitato a vendere tutto ai tedeschi di Mercedes e buttarsi su più redditizie iniziative. Come quella che alla fine del secolo scorso, sull'onda montante della New economy, gli veniva offerta su un piatto d'argento.Finì che alla grande valenza simbolica di una possibile clamorosa riconversione industriale, la famiglia torinese preferì la lauta plusvalenza incamerata grazie all'Opa di Roberto Colaninno. Naturalmente non sapremo mai come, con un padrone le cui azioni oltre a pesarsi si fossero contate, e uno stato patrimoniale non gravato dalla montagna del debito, gli Agnelli avrebbero gestito un'azienda dove, fino alla loro uscita, il solo contributo tangibile fu di affidarla a un «very powerful executive chairman», Gian Mario Rossignolo, con gran mal di pancia degli altri azionisti.
Così come, e con questo arriviamo alla gestione successiva, non sapremo mai se l'unilaterale decisione di Chicco Gnutti di vendere mentre il suo socio Colaninno stava cacciando pernici in Argentina, abbia impedito all'industriale mantovano di dimostrare che lui l'azienda l'avrebbe fatta prosperare anche a dispetto dell'enorme indebitamento contratto per scalarla.
A proposito del destino e delle sue maledizioni, anche Marco Tronchetti Provera ha di che lamentarsi . Ha avuto la sfortuna di comprare il gruppo nel luglio 2001, due mesi prima dell'attentato alle Torri gemelle. Quando il secondo aereo squarciò la seconda torre, il presidente della Pirelli, che assisteva attonito alla diretta televisiva nel suo ufficio di via Negri, se ne uscì con uno sgomento «il mondo non sarà più quello di prima» che, nel particolare, voleva dire che anche la Telecom, da poco la sua Telecom, non sarebbe più stata quella di prima. E che gestirla, al di là di tutti gli intoppi politico-giudiziari che gli si sono parati davanti, sarebbe stato tremendamente arduo. Tanto arduo, e siamo al luglio dell'anno scorso, da dover alla fine gettare la spugna. A ben guardare in mezzo a tantiguai questi passaggi di proprietà ( quattro in dieci anni) tramandano una costante che è anche l'unica certezza: chi ha tentato l'impresa, ma è stato costretto anzitempo ad abbandonarla, se ne è uscito certo non felice ma ricco . È stato così per gli Agnelli e per gli ardimentosi della razza padana che si sono visti pagare le azioni Olivetti a 4,17 euro. È stato così per la società degli pneumatici che ha abbandonato la scena incassandone 2,8 a fronte di un andamento di Borsa, nell'un caso come nell'altro, largamente inferiore.Con il terzo inciampo del destino arriviamo all'oggi. Se gli attuali azionisti hanno colpevolmente tergiversato prima di arrivare alla nomina di un vertice condiviso, poco hanno potuto di fronte al cambio di rotta delle Borse e alla crisi dei subprime che le ha terremotate. Anche se, è giusto dirlo, il crollo senza precedenti del titolo patito ieri non sconta solo il cupo contesto ma anche tutta la delusione per un piano industriale che non compensa il richiamo realista di Franco Bernabè-«non aspettatevi i fuochi artificiali» nemmeno con un piccolo scoppio di petardo buono a ravvivare animi spenti e disillusi (se non quello, dal rumore stonato, del poco felice e tempestivo annuncio di un piano di stock option).Destino maledetto che brucia uno dopo l'altro chi tenta l'ardua impresa, situazione geopolitica, nubi sull'economia, euro e petrolio alle stelle, decisioni mancate e decisioni che forse era meglio mancare. Ogni fallimento ha buoni motivi su cui recriminare. Sta di fatto che, a undici anni dalla sua privatizzazione, era l'ottobre del 1997, il destino di Telecom è ancora in alto mare. Mentre si moltiplicano quelli che, come il noto banchiere, al mantenimento della sua italianità non danno più speranze.
Dagospia08Marzo2008
Telecom e l'Italia
13/03/2008
Telecom sembra condannata a rappresentare i deficit culturali, politici ed istituzionali d’Italia. Prima la si è privatizzata malissimo, poi se ne è consentita la scalata in violazione delle regole e per mano di protagonisti che andavano fermati e, invece, trovarono complicità nel governo, successivamente si permise la rivendita fuori Borsa e, nel mentre la gestione Tronchetti affondava nei propri errori, la si è ricattata politicamente. Una Waterloo del mercato, delle regole, della trasparenza e delle autorità di controllo. Ora, dopo avere piazzato le banche al posto della proprietà e fatto entrare gli spagnoli cui prima s’era impedito d’acquistare, si fa finta di credere che tutto il problema stia nella nuova dirigenza, incapace di dare una strategia a quella che fu una grande multinazionale. Non è, solo, così.
La strategia non c’è e non c’è un’idea razionale di futuro. E’ vero, ma la cosa riguarda l’intero Paese. Prendete i programmi elettorali delle forze maggiori e ci leggete il desiderio di diffondere la larga banda, vale a dire le linee che consentono la trasmissione veloce di dati. Cosa tanto giusta quanto generica ed insignificante. Il fatto è che in Europa ci si lamenta perché la fetta di mercato occupata dagli ex monopolisti è ancora troppo grande, ma da noi lo è assai di più. Ci fu un tempo in cui eravamo leader nella penetrazione della telefonia cellulare, adesso ci manca poco e non avremo più un solo operatore italiano. Il che non m’inquieta certo per nazionalismo economico, ma segnala che abbiamo perso la partita nel resto del mondo, e ci apprestiamo a perderla in casa. Il tutto mentre la distinzione fra fornitori di rete e fornitori di contenuti resta un fatto teorico, del tutto sconosciuto nel settore televisivo, caratterizzando il mercato interno come arretrato.
I gruppi che si sono succeduti in Telecom si sono arricchiti a danno della società, distruggendola progressivamente. L’unica strategia che si trasmettevano era la perpetuazione del monopolio possibile, in qualche caso mutandolo in oligopolio. Oggi, nel mentre le azioni precipitano, che diavolo di nuova strategia si vuole se l’estero non c’è quasi più (non parliamo del Brasile!) e l’Italia non ha politica industriale? Forse si chiedeva un gioco di prestigio, ma il cilindro s’è sfondato.
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