..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

sabato 25 ottobre 2008

AFFINITA'

Parallelamente in questi giorni abbiamo assistito al caso Saviano, al processo Mannino e alla riforma Gelmini.
Di per sé tre elementi che hanno una loro storia, un loro cammino, disomogenei nel loro aspetto specifico.
Ma c’è qualcosa che li rende armonici, compatti.
E’ finita la storia giudiziaria dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, attualmente senatore dell’Udc, è stato assolto dai giudici della seconda sezione penale della corte d’appello di Palermo che lo processavano per il reato di concorso in associazione mafiosa.
Ma da qui deve iniziare il dovere della memoria.
Il sostituto procuratore generale Vittorio Teresi aveva chiesto otto anni di carcere. Secondo l’accusa l’esponente dell’Udc era colpevole per fatti avvenuti dall’81 (per quelli precedenti ha chiesto l’assoluzione) in poi e del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo, davanti alla seconda sezione penale della Corte d’Appello di Palermo, si è svolto dopo il “rinvio” deciso dalla Cassazione nel 2005 che annullò la sentenza di condanna in appello a cinque anni e quattro mesi. Per Teresi (piemme di accusa anche nel 2001) l’ex ministro nell’81 avrebbe stretto un accordo con i boss agrigentini e palermitani, garantito da Tony Vella, un mafioso agrigentino e da Gioacchino Pennino, esponente della corrente cianciminiana, diventato successivamente collaboratore di giustizia. “Dopo essersi ben comportato con i boss della sua provincia l’imputato si legò anche ai clan palermitani che gli diedero fiducia, puntando su di lui con un patto elettorale che gli garantì voti tra l’83 e il ’92”. L’accusa nel corso della sua ultima requisitoria prese le distanze dalle ultime dichiarazioni di Pennino che nel corso del processo ha modificato alcune accuse. Il processo a Mannino ha superato per durata ogni record.
Un processo avventuroso ed infondato con cui s’è cambiato il corso della storia italiana.
La sua vicenda giudiziaria inizia formalmente il 24 febbraio del 1994, quando gli fu notificato dalla Procura della Repubblica di Palermo un avviso di garanzia per concorso in associazione mafiosa. Il 13 febbraio del 1995, su ordine di custodia firmato dal gip di Palermo, Alfredo Montalto, fu arrestato perché avrebbe potuto depistare le indagini. Fu rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia e rinviato a giudizio il 28 ottobre successivo. Nel carcere romano restò fino al 15 novembre del ’95 quando fu scarcerato per il grave stato di salute (era stato colpito da una neplagia maligna ed aveva perso 33 chili di peso) ed obbligato agli arresti domiciliari fino al 3 gennaio del 97. Il processo di primo grado si aprì il 28 novembre del 1995 e dopo un dibattimento lunghissimo, più di 300 udienze, 400 testimoni citati, dei quali 250 dall’accusa, fu assolto il 5 luglio del 2001. In appello, nel maggio del 2004, fu condannato a cinque anni e quattro mesi. Il 12 luglio del 2005 la Cassazione a Sezioni unite annullò la decisione e ordinò un nuovo processo, che è giunto oggi a conclusione.
La classe dirigente siciliana meritava la sconfitta politica, invece la giustizia politicizzata ci ha sequestrato la democrazia. Gli oppositori di Mannino credettero di vincere, non s’accorsero d’essersi suicidati. Gli italiani hanno subito un danno irreparabile ed i palermitani anche la beffa di dover pagare le spese giudiziarie, essendosi il loro comune improvvidamente costituito parte civile. Cercarono di rendere mafiosa la storia d’Italia, l’altra faccia della medaglia è la santificazione di chi pure ha responsabilità politiche. Invece si devono far emergere le responsabilità personali di chi ha allestito la fetida stagione giustizialista.
Molti di noi, me compreso, per tutti questi anni siamo rimasti allo scuro di questa vicenda, “ingessati” e “normalizzati” da un’informazione che ha le sue regole, le sue priorità, i propri padroni.
A differenza di quello che sta accadendo in questi giorni con il caso di Roberto Saviano.
Stampa e televisione hanno portato nelle case di tutti gli italiani il volto e le parole del ventottenne scrittore, autore del libro campione d’incassi Gomorra.
Un viaggio nel mondo affaristico e criminale della camorra e dei luoghi dove questa è nata e vive: la Campania, Napoli, Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa, luoghi dove l'autore è cresciuto e dei quali fa conoscere al lettore un'inedita realtà. Una realtà fatta di ville sfarzose di boss malavitosi create a copia di quelle di Hollywood, fatta di campagne pregne di rifiuti tossici smaltiti per conto di mezza Europa, fatta di una popolazione che non solo è connivente con questa criminalità organizzata, ma addirittura la protegge e ne approva l'operato.
Due storie che ci raccontano la stessa realtà, vissuta e vivente in questo spicchio di terra che gode delle acque del mediterraneo, ma diametralmente opposte per come ci vengono riportate: con omertà e silenzio la prima, con riflettori e tappeti rossi la seconda.
Governo e opposizione, nel periodo più nero dell’economia mondiale, stanno dibattendo animatamente sul problema della scuola: le riforme da attuare, i tagli da realizzare, la giusta causa per un grembiulino.
Più che un decreto sembra un decretino: pochi tagli, nessun licenziamento, tempo pieno che resta, e voti che sostituiscono il giudizio.
Robetta ci viene da chiamarla, eppure da una parte c’è chi “occupa”, pur non essendo direttamente interessato, manifestando contro un sistema che vorrebbe diverso, senza rendersi conto che per quel sistema ha combattuto, con a fianco un’opposizione che non cerca strumenti alternativi, non si siede ad un tavolo tecnico per cambiare le cose ma scende in piazza, per contestare chi, dall’altra parte, ha cominciato un percorso per alterare un andamento seduto sull’ammortizzatore sociale.
Di antidoti temporanei ne è piena la storia della Repubblica, né l’occupazione né la repressione sono la soluzione per il problema della scuola.
La scuola ha bisogno di una riforma completa, alla scuola bisogna offrire la linfa necessaria per rendere vitale la sua vera natura: istruire, educare, indicare la strada per un futuro migliore, fatto di lavoro, di onestà, di persone che si abituino a pensare.
Si! Pensare!
Solo una scuola di qualità può sopperire alla lezioncina imparata a memoria, immobilizzata per il tempo necessario che intercorre tra l’apprendimento e l’interrogazione, e poi il nulla, niente che rimane, tutto che svanisce.
Serve una scuola di pensiero per ricordare, per non dimenticare, per restituire alla memoria i casi come quelli di Calogero Mannino e all’uso incontrollato e criminale dei pentiti di mafia, ascoltati, pagati e armati per ammazzare.
Serve una scuola di logica, di ragione per differenziare la “pubblicità” occulta fatta in nome di uno scrittore da quella occultata di un uomo imputato da dei mafiosi.
Una scuola che raziocini chi la frequenta perché capisca che un libro come Gomorra ha avuto successo perché serve a qualcuno, mentre I Cento Passi è passato inosservato, perché evidentemente scomodo a molti, come inosservato è passato l’omicidio di Giuseppe Impastato, assassinato dalla mafia il 9 maggio del 1978.
L'uccisione o, come si fece credere allora, l'incidente non destò il clamore dovuto, per il fatto che lo stesso giorno veniva ritrovato, in via Caetani a Roma, il corpo del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.
Serve una scuola che faccia riflettere, che dia la possibilità di capire le differenze che passano da un uomo morto imbottito di tritolo e un suicidio.
La disomogeneità degli aspetti è ciò che senza la ragione si rischia di non vedere, di non capire, ma c’è qualcosa che li può rendere comprensibili e affini: una scuola diversa.
di Cirdan


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