Le aziende devono fare i conti con linee di credito più care
di Alessandro Plateroti
di Alessandro Plateroti
L'euforia, come i subprime, ormai si vende a sconto. E così, passato l'entusiasmo del momento, la manovra coordinata di salvataggio delle banche sembra aver perso gran parte dello smalto. Il calo subito ieri dal Nasdaq e dallo S&P 500 riflette infatti il vero problema con cui gli investitori fanno i conti: se per le banche è forse finita la fase più acuta dell'emergenza, i guai sono appena iniziati per l'economia.
«Aver spento l'incendio per evitare che la casa bruci», come ha detto della manovra salva-banche l'ex rappresentante italiano all'Fmi Vito Tanzi, non basta: il mercato vuole sapere se i Governi dedicheranno alle imprese l'attenzione, le risorse e la stessa unità d'intenti dimostrata per le banche.
La situazione "a monte", cioè nell'economia reale e soprattutto nell'industria, preoccupa: Fondo Monetario ed economisti hanno già anticipato la recessione nel 2009 e mentre ieri a Wall Street i titoli delle banche "salvate" salivano, quelli delle grandi società industriali cadevano. Non solo. Gli spread sui tassi interbancari sono sì scesi, ma restano su livelli altissimi. E soprattutto, i costi di finanziamento delle imprese non sembrano destinati a scendere. Forse le banche ricominceranno presto a fidarsi l'una dell'altra, ma il problema vero è ridare fiducia e capitali alle imprese.
Il Sole 24 Ore ha rivelato ieri che quest'anno le imprese hanno attivato larga parte dei 6mila miliardi di dollari di linee di credito pluriennali che erano state contrattate a livello mondiale nel 2007: per quei capitali, preziosi in questa fase di paralisi del credito, le aziende pagano lo 0,24% sopra l'Euribor. Ma se la stessa operazione fosse negoziata oggi, le condizioni sarebbero proibitive: per le linee di credito si è già arrivati - e questo vale anche per le imprese italiane - a 225 punti base oltre l'Euribor, pari a un balzo dell'800% sull'anno scorso.
Per fare un esempio concreto, possiamo dire che una linea di credito a 10 anni di 5 miliardi per un'impresa italiana sana e con un rating elevato costa - se attivata - un interesse di 200 punti base oltre il tasso di riferimento interbancario. Se, come hanno già messo in guardia sia Moody's che Standard & Poor's, la qualità del credito corporate delle aziende europee e americane è destinata a scendere drammaticamente nel 2009 per effetto della recessione, il costo del credito per il sistema economico salirà in modo esponenziale. Con il rischio di una vasta crisi industriale incipiente, i Governi dovranno porsi la questione di come aiutare le imprese a finanziarsi mentre le banche sono in cura.
Non è un caso se gli Stati Uniti, proprio mentre la Casa Bianca accendeva i riflettori sul piano salva-banche, autorizzavano in gran segreto il Fisco a dare il via a una «manovra sporca»: allentare le regole a cui le industrie devono attenersi nel rimpatrio dei capitali custoditi nelle società offshore, i paradisi fiscali. Normalmente, le multinazionali pagano una tassa del 35% sui loro capitali rimpatriati e possono farlo per 30 giorni due volte l'anno. Da una settimana, la "finestra" è stata estesa a 60 giorni per tre volte l'anno, in modo da allentare la morsa della crisi.
È solo un palliativo, ma come hanno promesso i due candidati alla Casa Bianca, un ben più incisivo sostegno ai consumi e all'industria arriverà dopo il voto di novembre. Se l'Europa vuole fare la sua parte, può cominciare riscrivendo le regole di Basilea 2: quegli standard sul merito di credito, per le imprese, sono ormai irrealistici.
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