Che fine hanno fatto, nell’era di Obama, i neoliberal americani, il gruppo di falchi di sinistra che nei mesi successivi all’11 settembre 2001 ha condiviso, sostenuto e per certi versi contribuito a ideare la risposta di George W. Bush agli attacchi islamisti a New York e Washington? A otto anni di distanza dalla strage delle Torri gemelle, e a sei dall’invasione angloamericana dell’Iraq, c’è la tendenza a dimenticare quel manipolo di editorialisti e politici di sinistra che all’indomani delle stragi di Osama bin Laden ha imboccato la via patriottica, invece che farsi condizionare dal riflesso pacifista post Vietnam e dalla retorica antimperialista che fa risalire a presunte colpe americane le cause dei mali del mondo.
Si tratta di quel pugno di intellettuali che aveva anticipato, già all’epoca di Bill Clinton, le basi ideologiche della dottrina Bush di diffusione della democrazia in medio oriente e dell’intervento armato volto a destituire il dittatore Saddam Hussein. Oggi si attribuisce tutto ciò che è successo in questi anni alla cecità ideologica dei neoconservatori e allo spirito imperialista della destra nazionalista americana, oltre che agli errori dell’Amministrazione Bush, ma a rileggersi i giornali dell’epoca tra gli interventi più tambureggianti c’erano proprio quelli dei “liberal hawks”.
Todd Gitlin, leader del movimento studentesco degli anni Sessanta e del sentimento pacifista contrario alla guerra in Vietnam, in quei giorni ha rivendicato il diritto della sinistra ad amare il proprio paese e di esporre orgogliosamente la bandiera a stelle e striscie. E su questo ha scritto il libro “Gli intellettuali e la bandiera”.Paul Berman, Christopher Hitchens, Martin Peretz e Kanan Makiya sono stati i quattro intellettuali di sinistra che pur avendo preso le distanze da George W. Bush hanno spiegato con parole liberal e spirito socialista l’importanza e la necessità di rimuovere Saddam e di liberare il medio oriente.
Joe Klein di Time, il direttore del New Yorker David Remnick, il direttore di New Republic Peter Beinart, l’attuale direttore del New York Times Bill Keller, George Packer del New Yorker, Jacob Weisberg e Fred Kaplan di Slate, Thomas Friedman del New York Times, il filosofo Michael Ignatieff, il saggista di Newsweek Fareed Zakaria, Jeffrey Goldberg dell’Atlantic, Richard Cohen del Washington Post, Leon Wieseltier di New Republic e molti altri ancora, come il libertario Andrew Sullivan e il semiconservatore Francis Fukuyama, hanno aderito con entusiasmo al club dei volenterosi intellettuali di sinistra pro Bush, salvo dileguarsi col tempo, quando le cose in Iraq sono cominciate ad andare male, e poi ancora peggio nell’estate del 2006.
Chi prima e chi dopo, ciascuno di loro ha compiuto una giravolta completa, fino a trasformarsi nel più feroce critico dell’intervento militare in Iraq e di tutti gli aspetti della guerra al terrorismo della Casa Bianca. Oggi, archiviato Bush, e con Obama al timone di comando, ma impegnato a fronteggiare lo stesso nemico, sono sempre loro, i falchi liberal, da Friedman a Cohen a Beinart, ad avanzare qualche primo e timido dubbio di fronte al ritorno della forma mentis del 10 settembre che sembra aver riconquistato il mondo occidentale. Sono sempre loro a ricordare che tutto sommato l’idea di andare a combattere i jihadisti a Bassora anziché aspettarli a Baltimora ha funzionato e che forse anche per Obama è arrivata l’ora di abbandonare la retorica da campagna elettorale e riconoscere apertamente, anziché farlo sottobanco, che alcune delle più controverse scelte compiute dalla precedente Amministrazione erano inevitabili e condivisibili, anche perché hanno reso più sicura l’America.
Si tende a dimenticare, inoltre, che anche i grandi esperti liberal di questioni mediorientali sostenevano a gran voce la strategia della Casa Bianca ed erano favorevoli all’intervento in Iraq. I contrari e gli scettici, oltre all’allora ininfluente sinistra radicale, erano i conservatori, da Brent Scowcroft a James Baker, da Colin Powell a Henry Kissinger. Uno degli analisti liberal, anzi, ha scritto il libro che nei mesi precedenti l’operazione “Iraqi freedom” ha convinto l’opinione pubblica di sinistra sull’inevitabilità della destituzione di Saddam. Il libro era “The threatening storm – The case for invading Iraq” di Kenneth Pollack, ex funzionario del Consiglio di Sicurezza nazionale di Bill Clinton e analista del centro studi liberal Brookings Institution. Un paio d’anni dopo, Pollack ha cominciato a scusarsi sulle pagine dell’Atlantic Monthly e poi ha scritto un libro per scongiurare un intervento in Iran.
Non è stato il solo. Anche molti degli altri entusiasti sostenitori della dottrina bushiana, con l’eccezione di Berman, Hitchens e Peretz, hanno pubblicato mea culpa pubblici, sulle pagine di New Republic e sul sito di Slate, se non addirittura libri di espiazione a mano a mano che arrivavano notizie pessime dall’Iraq. Beinart ha scritto “The good fight”, un libro concepito in un momento in cui le cose in Iraq andavano bene e quindi come un atto d’accusa nei confronti della sinistra pacifista e vittima della sindrome del Vietnam, ma che si è trasformato in un atto d’accusa contro l’arroganza bushiana nel momento in cui la situazione in Iraq si è deteriorata e il saggio è stato pubblicato. Zakaria, che già aveva partecipato a un incontro con Paul Wolfowitz che ha prodotto un rapporto pro war per il presidente Bush, l’anno scorso ha scritto “The Post American World”, il cui titolo dice tutto sul declino americano, e ora sostiene che l’Iran non è una dittatura e che non si vuole fare la bomba. Weisberg ha pubblicato “The Bush Tragedy”, un ritratto psico-shakespeariano sull’ex presidente. Fukuyama ha scritto un saggio per spiegare di non aver mai preannunciato “la fine della storia”. Kaplan ha pubblicato “Daydream Believers”, sull’ingenuità ideologica dell’Amministrazione Bush.
Il paradosso è ...continua
di Christian Rocca
Nessun commento:
Posta un commento