Barack Obama sta ultimando l’ampia revisione della strategia politica e militare americana in Afghanistan, proprio nei giorni in cui il Washington Post ha scoperto che la Casa Bianca, senza dire niente a nessuno, ha inviato tredicimila soldati a Kabul, oltre ai ventunmila con cui aveva già raddoppiato, rispetto all’era Bush, il contingente statunitense. Ora, tra Iraq e Afghanistan, ci sono più soldati americani di quanti ce ne fossero nel momento di massimo sforzo bellico di Bush, un bel problema per chi ha vinto le elezioni promettendo di ritirarsi dall’Iraq e ha appena vinto il Nobel per la Pace. Ma l’Afghanistan non è l’unico problema, c’è soprattutto l’Iran a turbare le giornate del presidente.
La complessa e delicata politica obamiana sull’Iran tarda a produrre risultati concreti e, al contrario dell’Afghanistan, costringe il presidente a dover affrontare un Partito democratico decisamente più falco della Casa Bianca. Il Congresso guidato dai democratici ha votato quasi all’unanimità, con 414 voti favorevoli e solo 6 contrari, l’Iran Sanctions Enabling Act che autorizza le amministrazioni locali e statali a disinvestire dalle società con interessi nel settore energetico iraniano o che fanno affari con l’industria nucleare di Teheran. La legge consente di disinvestire anche da società che producono materiali usati per costruire o riparare le strutture energetiche iraniane e dalle istituzioni finanziarie che concedono crediti superiori ai venti milioni di dollari a chiunque investa nel settore energetico di Teheran. Al Senato un testo molto simile è stato presentato in modo altrettanto bipartisan dal senatore democratico Robert Casey e dal repubblicano Sam Brownback. Quando Obama era senatore aveva presentato una proposta di legge simile, per questo Casey e Brownback gli hanno chiesto di sostenerla.
Il problema è che da quando è presidente, avendo responsabilità diverse e puntando su una politica di apertura diplomatica al regime iraniano, Obama preferisce non compiere passi che potrebbero innervosire gli ayatollah. Al punto che, nel pieno della rivolta popolare della piazza di Teheran per i brogli elettorali alle elezioni presidenziali, il presidente americano è stato il leader occidentale più lento e cauto a schierarsi con i militanti democratici. L’Amministrazione Obama s’è messa nei guai anche con la Russia, a cui ha concesso lo smantellamento dei missili anti iraniani che Bush avrebbe voluto sistemare in Europa orientale, ma in cambio non ha ottenuto il via libera di Mosca, né tantomeno quello della Cina, alle sanzioni internazionali contro l’Iran. Il regime degli ayatollah, intanto, non fa nessun passo indietro e sembra aver trovato il modo, grazie ai recenti colloqui internazionali di Ginevra, di guadagnare ulteriormente tempo.
Un altro colpo alla politica iraniana di Obama è arrivato, ieri mattina, da un’intervista della Nobel per la Pace Shirin Ebadi. L’avvocato iraniano, vincitore sei anni fa del premio, non è un’estremista, non è sospettabile di simpatie bushiane o blairiane, ma è nota per la cautela e la misura dei suoi interventi politici. Al Post, però, ha detto che Obama sta compiendo passi indietro riguardo all’Iran. La Ebadi non è contraria al tentativo americano di trovare un accordo con Teheran, ma ha sottolineato che “Obama ha offerto la mano dell’amicizia a un uomo che ha le mani insanguinate”. Concentrarsi sulle ambizioni nucleari iraniane invece che sulla repressione della libertà e della democrazia, secondo la Ebadi, è un errore tattico e morale: “Se l’occidente punta esclusivamente sulla questione nucleare, Ahmadinejad può dire al popolo che l’occidente è contrario all’interesse nazionale iraniano e quindi può riuscire A coinvolgerlo alla sua causa. Ma se l’occidente facesse pressione anche sulla violazione dei diritti umani, costringerebbe Ahmadinejad a contare su una base popolare giorno dopo giorno sempre più debole”. Ebadi ha detto che per la sicurezza nazionale americana cambiare la natura del regime iraniano è più importante di qualsiasi accordo sul nucleare: “Un governo democratico difficilmente costruirebbe una Bomba, e se lo facesse non costituirebbe un pericolo perché finirebbe nelle mani di un governo che non considera l’America e Israele come nemici”.
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