L’America sta scoprendo che la politica estera di Barack Obama non è per il cambiamento ma per la stabilità, non ha tra le sue priorità l’espansione della democrazia, la diffusione della libertà e la difesa dei diritti umani come da manuale del perfetto presidente di centrosinistra, ma solo il più stretto interesse nazionale. La copertina di Newsweek è dedicata al ridimensionamento della politica estera americana, malgrado l’escalation della guerra in Afghanistan e in Pakistan. Il mensile di sinistra American Prospect sostiene che “per Obama, la democrazia è una brutta parola”.
Tutto ciò non può essere considerato una sorpresa, non è una promessa non mantenuta. In campagna elettorale, Obama ha detto più volte che il suo approccio alla politica estera sarebbe stato simile a quello del primo presidente Bush, il padre di George W. e il campione più recente della Realpolitik americana. Analisi confermata ieri dal Wall Street Journal. Bush senior è stata l’eccezione realista degli ultimi trent’anni alla Casa Bianca. Prima di lui ci sono stati Jimmy Carter, la cui politica estera era centrata sulla difesa dei diritti umani, e Ronald Reagan la cui dottrina si basava sulla “moral clarity”, la chiarezza morale delle intenzioni e delle azioni americane. Poi un altalenante Bill Clinton, ma pur sempre liberatore dei Balcani, e il democratizzatore del medio oriente Bush. Dopo la sbornia bushiana post 11 settembre, a lungo sostenuta da intellettuali, politici e commentatori di sinistra, il mondo liberal si è ripiegato su se stesso, ha iniziato a giudicare con sospetto l’idea di promuovere la democrazia ed è tentato dal rifugiarsi nell’isolazionismo, una delle dottrine tradizionali della politica estera americana, ma solitamente abbracciata dalla destra. Ovviamente non è tutto bianco o nero. I presidenti americani non sono ideologi, ma politici impegnati a difendere gli interessi del loro paese e a essere rieletti. Sono allo stesso tempo idealisti e pragmatici, visionari e attenti agli equilibri di potere.
L’approccio di Obama è ancora più pragmatico e meno ideologico del passato. Quando annuncia azioni di sicurezza nazionale, come sull’Afghanistan, sembra un docente universitario abile a ponderare ogni aspetto strategico della crisi più che un leader capace di comunicare al pubblico necessità e urgenza del sacrificio chiesto ai connazionali. A differenza dei suoi ispirati discorsi sul fronte interno, quando parla di politica estera risulta freddo, distaccato, non convincente. La destra lo accusa di non volersi impegnare a fondo per sconfiggere i nemici, la sinistra si infuria per l’escalation militare e con Michael Moore e Oliver Stone riesuma gli slogan sulla Casa Bianca guerrafondaia usati contro Bush.
C’è anche gente più saggia, capace di valutare in modo sereno l’approccio obamiano. I neoconservatori del Weekly Standard hanno molto da dire sulla mancanza di passione del presidente, ma lo sostengono per la coraggiosa scelta di non cedere ai talebani. Newsweek analizza con Fareed Zakaria il paradosso obamiano, un presidente alla ricerca di una politica estera post imperiale costretto però ad ampliare lo sforzo bellico: “Gran parte dei presidenti non riesce a resistere alla tentazione di diventare Winston Churchill e a lanciarsi in una grande retorica sulla libertà e la tirannia. Non Obama, però”.
A sinistra, anche quella meno rumorosa, questo approccio non piace. Il Nobel per la pace non può sviare su libertà, diritti e democrazia. C’è chi contesta a Obama il disinteresse sul Darfur, chi di non aver sostenuto i democratici di Teheran e chi di non occuparsi delle donne afghane. James Rubin, al governo ai tempi di Clinton, lo invita a centrare la sua politica estera sui diritti umani. L’American Prospect racconta che i militanti pro democracy si sono certamente opposti ai tentativi di Bush di imporre la libertà sulla punta delle baionette, ma ora sono preoccupati che l’approccio di Obama non sia tanto meglio. “La politica estera degli Stati Uniti – ha detto qualche tempo fa Hillary Clinton spiegando la strategia obamiana – si basa su tre ‘D’: difesa, diplomazia, development (sviluppo)”. La quarta ‘D’, democrazia, non c’è.
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