Il nuovo anno di Barack Obama non si è aperto sotto i migliori auspici, per un presidente che il mondo credeva potesse portare pace, armonia e serenità per il solo fatto di non chiamarsi George W. Bush. In pochi giorni un terrorista islamico è stato fermato prima che si facesse esplodere a bordo di un aereo sopra il cielo di Detroit e otto agenti della Cia sono stati uccisi in Afghanistan da un kamikaze. I missili americani hanno ricominciato a colpire a ripetizione il Pakistan e il loro raggio d’azione ha già raggiunto lo Yemen, lo stato arabo che assieme alla Somalia è il terzo fronte della guerra al terrorismo.
Obama aveva cominciato la sua presidenza evitando di usare il linguaggio post 11 settembre di Bush. La frase “war on terror” è stata bandita dal lessico di Washington. Così come “jihadismo” e “terrorismo islamico”, sostituiti con un generico “estremismo” oppure con l’orwelliano neologismo “man-caused disaster”, disastri causati dall’uomo. Gli interventi militari all’estero sono diventati “overseas contingency operation”, operazioni impreviste oltremare. Lo stesso Obama ha invitato a non giungere a conclusioni affrettate, quando un maggiore dell’esercito americano ha fatto una strage di commilitoni urlando Allah Akbar nella base di Fort Hood. L’ideologia del politicamente corretto – secondo cui basta negare la realtà e cambiarle semplicemente nome per scongiurare i suoi pericoli – sembrava aver preso il sopravvento rispetto ai bellicosi toni di Bush, Cheney e Rumsfeld.
Questo però era soltanto un aspetto della prima fase della presidenza Obama. Dietro la retorica buonista volta a differenziarlo dal suo predecessore, Obama ha sempre agito da comandante in capo di una nazione in guerra, confermando il capo del Pentagono e i generali di Bush. Non ha ritirato i soldati dall’Iraq, li ha triplicati in Afghanistan e ha esteso il conflitto al Pakistan, allo Yemen e alla Somalia.. Al Congresso ha comunicato di avere il potere di avviare operazioni militari “in vari luoghi in giro per il mondo”. La Cia continua a servirsi delle rendition, i sequestri di terroristi in paesi stranieri, e ha ampliato il carcere di Bagram che da anni ha sostituito Gitmo. Il famigerato Patriot Act è stato riconfermato e il bilancio del Pentagono è più grande di quelli di Bush.
Obama ha fatto qualche concessione alla sua immagine di uomo del cambiamento, ma per il momento sono solo annunci: le accuse di torture continuano, Guantanamo è ancora aperto e non chiuderà prima di un altro anno, se mai chiuderà. Ci vorranno ancora mesi per il processo penale ordinario all’architetto dell’11 settembre. Obama ha già detto che si aspetta la pena di morte e che il terrorista tornerà in cella, in caso di assoluzione. I tribunali militari di Bush sono rimasti, così come il diritto di dichiarare “nemici combattenti” i detenuti e di tenerli in galera a tempo indeterminato e senza processo.
La continuità con Bush è diventata palese, ormai anche sotto l’aspetto retorico. L’illusione iniziale è finita. Washington ora è tornata ad ammettere che l’America è in guerra e, alla cerimonia del Nobel, Obama ha fatto l’elogio della guerra giusta, ha riconosciuto che nel mondo esiste il male e ha ribadito che compito del suo paese è quello di battersi per estirparlo.
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