L’indagine che ha investito Telecom Italia attrraverso la sua controllata Sparkle e Fastweb ha avuto l’effetto di una bomba dirompente. Su di essa, dopo giorni di riflessione ho maturato un pensiero strutturato. Diverso da quello che si limita all’indignazione. Molto diverso. Non so quanti saranno d’accordo con me, ma questo blog è per discutere apertamente. Si colpisce duramente il concorrente dell’incumbent, rispetto alle attenzioni riservate a quest’ultimo. Si azzera l’agenda che era sul tavolo d amesi. Si aiuta il manager di TI rispetto alle richieste dei suoi soci, e alla mancanza di strategia che sin qui ha contraddistinto la sua gestione. Voi direte: nulla di ciò deve interessare ai magistrati. Siete sicuri, che nulla di ciò interessi davvero? Io no. Proprio no.
I dati di fatto che constavano al sottoscritto per il dossier Telefonica-Telecom Italia (d’ora in poi TI) erano i seguenti, fino a metà febbraio.
I due soci forti italiani in Telco, la holding di controllo di TI con poco più del 22% del suo capitale, cioè Mediobanca-Generali e Intesa, desiderosi di alleggerire una partecipazione che non ha speranza a breve di tornare ai valori di libro inscritti a bilancio dei titoli TI, da qualche tempo avevano avviato con Caixa, l’Unione delle Casse di Risparmio di Barcellona che ha un 5% di Telefonica, e con Banco de Bilbao, che ne ha quasi il 6%, un tavolo tecnico riservato. Scopo: valutare tutte le diverse ipotesi di reciproca combinazione delle due società, e soprattutto i valori di concambio esaminando tutte – nessuna esclusa – le diverse ipotesi possibili. Una fusione rispetto alla configurazione attuale, che vede Telefonica unico socio industriale di TI. Oppure con scorporo di rete fissa e quotazione della medesima. Oppure ancora una fusione con subentro contestuale di altri soci italiani al posto dei ridimensionandi soci banco-assicurativi italiani, soci sia industriali sia finanziari, sia nella holding di controllo che magari, e diversamente, nella rete fissa scorporata ma non quotata. Ciascuna di queste ipotesi doveva essere poi valutata contestualmente alle ipotesi di obbligo di lancio di opa verso le azioni Ti escluse dal blocco di controllo. Nonché delle eventuali e più che prevedibili conseguenze antitrust, concentrate in America Latina, soprattutto Brasile e Argentina.
In ogni caso, i soci italiani banco-assicurativi si erano dati la scadenza condivisa che a nulla si sarebbe messo mano, prima di aprile-maggio prossimi. Berlusconi era riservatamente informato e condivideva, in maniera da valutare meglio dopo le elezioni regionali i margini di manovra ai fini dell’impatto delle decisioni sugli “interessi nazionali”. A palazzo Chigi non si poteva prendere sottogamba l’ipotesi di un deal che potesse apparire come una cessione agli spagnoli del controllo di TI, dopo tutto l’ambaradan messo in atto a inizio legislatura a favore della cessione di Alitalia a Cai con la scusa della difesa dell’italianità. Al contempo, secondo i bene informati era del tutto infondata l’indiscrezione lanciata come un petardo da Repubblica, secondo la quale Berlusconi fosse informato a far entrare Mediaset-Fininvest nella compagine. Non solo e non tanto per evitare nuove evidenti accuse di conflitti d’interesse, quanto perché l’integrazione verticale e orizzontale tra proprietari e gestori di reti TLC e fornitori-aggregatori di contenuti d’infotainment andava per la maggiore anni fa, ma ormai come modello di business di settore è del tutto tramontato, perché i mestieri sono e restano diversi e ognuno è meglio faccia il suo. E quanto alle prospettive di Mediaset impegnata nella rincorsa a SKY nella pay tv e nella ricerca di una piattaforma per l’IPTV, l’orientamento per quest’ultimo segmento – quello che renderebbe più conveniente un’alleanza industriale della tv con TI – non rende affatto necessaria una presenza nel capitale della società telefonica italiana o ispano-italiana, e tanto meno in posizione di controllo.
Questa era la situazione, fino a metà del mese scorso. A parlare insistentemente di fusione era Repubblica, volta a tacciare di manovra politica berlusconiana l’operazione, affiancandola all’eventuale ascesa di Geronzi in Generali e a quella di nuovi soci di controllo amici del premier in RCS. Ed erano parlamentari di seconda fila del centrosinistra e del centrodestra, la cui voce non impegna nessuno, coloro che si affannavano a caldeggiare oppure osteggiare l’idea di una società della rete scissa da TI, e l’eventuale ingresso nel controllo di quest’ultima di questo o quel soggetto italiano, privato o, soprattutto, pubblico.
Sullo sfondo – come spesso capita in Italia – restavano le considerazioni più essenziali. E cioè le prospettive industriali di TI, che vede dall’avvento di Bernabè prima per una ragione e poi per l’altra l’azienda priva di un vero e proprio impegnativo piano industriale, che non sia quello del taglio dei costi e soprattutto della cessione delle controllate e partecipate estere di TI, per ridurre il debito agli attuali 35 bn di euro circa. Di qui i soci banco-assicurativi italiani sempre più insoddisfatti, nel dover poi leggere sulla stampa amici di Bernabé proporre aumenti di capitale a sconto nell’ordine dei 10 bn di euro da lanciare sul mercato – in modo eventualmente da far diluire Telco se questa non avesse seguito – al fine non di sostenere un nuovo piano industriale ma di tagliare il debito della società, e restituirla poi alla possibilità per Bernabè di adottare un vero e proprio piano di ritorno alla crescita.
Ecco, più o meno così stavano le cose. Finché non è esplosa l’immensa grana dell’indagine su TI Sparkle e Fastweb. Che ha in poche ore cambiato integralmente la prospettiva del dossier TI-Telefonica. Un’indagine sulla quale proprio per questo vale la pena qui – dove non abbiamo gli obblighi e le convenienze che gravano sulla stampa italiana – di spendere qualche parola fuori dal coro.
La bomba giudiziaria
Mi assumo la responsabilità di far arrabbiare il lettore. Ma, a me, l’inchiesta su Fastweb e Telecom Italia Sparkle ha fatto venire i brividi. Però, non come ai più. Me li suscitati anzi in senso molto diverso. La dirò nella maniera più piatta, senza girarci intorno.
Bene: a me ha provocato disgusto e orrore, la piena omologazione tra responsabilità delle società telefoniche con i banditi delle società carosello all’estero, con la rete malavitosa di Mokbel e la cosca Arena che avrebbe eletto il senatore Di Girolamo. Si tratta di due mondi assolutamente separati. Separate sono le responsabilità penali. Se i corpi dello Stato che hanno indagato su filoni d’indagine diversi e distinti per poi riunirli nelle mani gli inquirenti, e se poi la magistratura al seguito hanno fatto un unico calderone, non voglio apparire troppo semplificatore e dietrologo ma una cosa mi pare assai probabile: si è mirato alto e sparato a pallettoni perché lo sdegno emotivo fosse massimo, e di conseguenza si determinassero immediatamente una serie di conseguenze. Guarda caso, mentre si muovevano partite importanti nella telefonia italiana. Partite che oggi non ci sono semplicemente più, dopo questa bomba atomica che le ha polverizzate: né Ti-Telefonica, né la sostituzione eventuale di Franco Bernabè in Telecom, né una società per le reti di nuove generazioni con il pieno coinvolgimento di Fastweb – titolare della più estesa e più avanzata rete di fibra di tutta Europa – e/o di altri operatori e/o di fondi d’investimento italiani, per portare la banda larga in pochi anni laddove non c’è.
Perché ho un’opinione tanto controcorrente, visto che sulla grande stampa italiana nessuno – nessuno – l’ha avanzata in maniera aperta (anche se in molti ne parlano a mezza bocca: ma questo dice solo che cosa sia il giornalismo italiano ormai, pronto a sparare sempre a briglia sciolta quando si parla di politica, ma assai più prudente quando si tratta di economia e finanza)? Perché un conto è andare in credito d’Iva e anche alimentare eventualmente traffici telefonici non reali per mostrare al mercato andamenti migliori, come avrebbero fatto le società telefoniche. Se il credito IVA era indebito – è questa e solo questa l’accusa fiscale alle telefoniche – si estingue pagando con ammenda. Se vi sono conti gonfiati e dunque scritture infedeli che hanno ingannato soci e mercato, si individuano i manager responsabili e li sottopone a giudizio civile ed eventualmente ad azione di responsabilità, da parte dei manager attuali visto che si tratta di fatti avvenuti anni fa. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’evasione fiscale per centinaia di milioni di IVA non pagata al fisco italiano dalle sole società carosello in mano ai malavitosi, e meno di nulla con il riciclaggio di denaro sporco e coi fondi neri dei medesimi soci di Mokbel ed eventuali elettori di Di Girolamo. Quella è la gente da sbattere in galera, e finalmente c’è anche materia per buttare a mare questa ridicola trovata delle circoscrizioni ultracontinentali per eleggere i parlamentari delle comunità italiane all’estero, con tutto il rispetto per Mirko Tremaglia che si è impegnato una vita ma non credo proprio avesse in mente di offrire immunità parlamentari a tali vergogne.
Invece, le 1600 pagine dell’ordinanza del Gip e gli atti dei Pm partono dal presupposto che le telefoniche e le società carosello della malavita fossero un’unica cosa. E non a caso si è proposta la misura dell’interdizione e in subordine del commissariamento per Fastweb, una misura senza precedenti per una grande società quotata italiana per di più controllata da un socio estero, Swisscom. Col risultato che il commissariamento, al quale sono contrarissimo e che da solo indica la follia della legge 231 italiana sulla responsabilità oggettiva d’impresa, per la migliore e più avanzata società telefonica italiana – Fastweb – significherebbe azzoppamento e congelamento, oltre a ottenere che dall’estero ci penseranno ancor più e peggio che mai, prima di investire un solo euro in Italia.
Ricopio qui una lettera inviatami subito, a poche ore dalla pubblicazione sui giornali degli stralcui della maxi-ordinanza, da una persona informata. La condivido praticamente in ogni parola. “Chiunque è un minimo nel commercio sa che ci sono in giro da oltre venti anni questi malfattori che basano i loro ricavi sul gioco dell’ IVA …. Automobili, telefonia, elettronica ma anche alimentari, carne etc…. il fenomeno è tanto più diffuso quanto più i margini si avvicinano o si riducono rispetto all’aliquota. Le aziende lo sanno benissimo e qualcuna ricorre coscientemente a questi canali per rattoppare situazioni di bilancio o centrare budget altrimenti non raggiungibili. Lo sanno bene gli Stati, addirittura in Spagna ci si lamentava che con l’Iva solo al 16% c’era uno svantaggio competitivo rispetto ad altri evasori europei che lavoravano per Paesi ad IVA più alta come l’Italia. La grande distribuzione ha anche un’arma in più che si chiama “ventilazione” dell’IVA ed è legale…..E’ un bel quadro che secondo me rende improrogabile una riforma dell’IVA: il valore aggiunto va incentivato non punito, chiamiamola tassa sui ricavi facciamo un aliquota più bassa e applichiamola sulle transazioni bancarie: risolviamo questo problema e incentiviamo le aziende a ottimizzare la filiera: più passaggi = più tasse = diseconomie. Poi bisognerebbe ridurre drasticamente i flussi di denaro contante e magari tassarli con forti aliquote per il prelievo e il deposito, i pagamenti elettronici ormai consentono ciò……togliendo il polmone finanziario alle attività illegali. Con due semplici provvedimenti si risolverebbero tanti dei problemi di questa nazione e si riporterebbe un po’ di regole ad un mercato che le ha perse e quindi rischia di collassare su se stesso come il socialismo reale…….”.
Se si parlasse con senso della misura, le responsabilità delle due telefoniche in nessuna maniera potrebbero essere accomunate a quelle dei banditi, e sarebbe appunto una riforma delle triangolazioni IVA, la soluzione da adottare. Se al contrario carabinieri e finanzieri – erano questi ultimi a indagare sulla parte tributaria della vicenda , 4 anni fa, e i manager delle telefoniche furono interrogati allora per poi non saperne più nulla, dopo aver attivato l’audit interno – hanno servito alla Direzione Nazionale Antimafia in nome del giustizialismo fiscale una delle storiacce più a forti tinte della recente cronaca italiana, la caccia a considerare Scaglia e Parisi come sodali di ndrangheta e banda della Magliana qualche sospetto a me l’ha fatto venire. Il commissariamento di Fastweb mentre Bernabè – che pure ha dovuto rinviare l’approvazione del bilancio 2009! – sorride e chiama l’azienda alla riscossa – lui che pure il bilancio consolidato 2007 della holding in cui confluiva il risultato di Sparkle con tanto di osservazioni in merito l’ha firmato eccone, dovrebbe far riflettere.
E’ evidente che di Telecom Italia e dei suoi squilibri, del suo goodwill che pesa 44 miliardi a giugno 2009 e che sempre meno reggerà l’impairment test con flussi di cassa in via di erosione a seguito del segno meno sul mobile oltre che sul fisso, e soprattutto delle prospettive di avere banda larga a 100 megabit in buona parte d’Italia presto – una prospettiva che all’incumbent non conviene finanziare persino a prescindere dal debito, avendo TI l’interesse opposto a massimizzare la rendita di posizione sul rame attraverso l’Adsl e per questo insistendo solo sul digital divide per il quale basta investire un miliardino di euro al più pubblico - di tutto questo e di come sarebbe possibile realizzare una società privata per finanziare il piano ce ne occuperemo la prossima volta. O forse mai. Visto che è la magistratura, in Italia, a dettare modi e vincoli delle strategie industriali.
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