Questo schifo proseguirà per altri dieci o vent’anni, Falcone & Borsellino continueranno a essere strattonati da una parte e dall’altra sino a essere definitivamente svuotati - forse già lo sono - di ciò che veramente furono e di ciò che veramente fecero. Sui loro nomi e sulle loro fotografie andrebbe seriamente proposta una moratoria, una sorta di imposta da far pagare ogni qualvolta si ritenga di dover imbracciare la loro icona come una clava. Ma è troppo tardi, lo è da una vita, è dall’estate 1992 che la loro memoria è finita nel canaio. Senza contare il relativo parentado in circolazione, i fratelli e le sorelle e le cugine, personcine dignitose mischiate ad autentici casi umani. Scaraventare il cadavere di Falcone & Borsellino ai piedi dell’avversario politico - come ha tentato di fare stavolta l’Espresso, arruolandoli nella campagna contro la legge anti-intercettazioni - resta comunque una porcata peggiore di quella che ha riguardato altri personaggi ed «eroi» pure defunti. Va oltre ogni fisiologia.
Esiste - lo scriviamo per pararci il sedere - anche una strumentalizzazione più reazionaria e di destra: parlando di separazione delle carriere basta rilanciare l’articolo de La Repubblica del 3 ottobre 1991 in cui Falcone si diceva favorevole a una riforma in questa direzione; nel sostenere l’inesistenza del fatidico Terzo livello mafioso basta citare quanto il medesimo disse alla Stampa del 30 luglio 1989, laddove Falcone lo riteneva inesistente; per le critiche alla politicizzazione della magistratura ci soccorre un’intervista a Falcone de La Stampa (6 settembre 1991) mentre per le critiche alle correnti del Csm basterebbe ancora La Repubblica (20 gennaio 1990) e insomma: nello schifo a cui è ridotto il giornalismo e la lotta politica basta davvero poco per arruolare i due magistrati dove faccia comodo.
Per Falcone è facilissimo. Per Borsellino forse un po’ meno, ma qui è disponibile una comoda scorciatoia: ricordare che era di destra. Giuseppe Ayala, quando all’inizio del 1992 lasciò il palazzo di Giustizia perché si era candidato al Parlamento, ebbe un dialogo con Borsellino decisamente surreale: «Non ti posso votare»; «Perché?»; «Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto». Tutto ovviamente sul filo dell’ironia, come per gli sfottò legati al passato di Borsellino da simpatizzante del Fuan: «Lo chiamavo camerata Borsellino», ha raccontato Ayala ne «La guerra dei giusti», «Ci rideva su, io entravo sguainando il braccio destro e lui rispondeva allo stesso modo».
Amico vero di Borsellino del resto era Guido Lo Porto, deputato missino, oppure Giuseppe Tricoli, il professore di Storia con cui Borsellino passò l’ultimo giorno della sua vita. Anche la madre di Paolo Borsellino era un bel tipetto: quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia vietò ai figli di accettare doni dagli americani. Basta questo, per arruolarlo a destra? No. Ma basterebbe anche questo per non arruolarlo neppure a sinistra o al servizio di buffonesca campagna post-mortem, lui al pari di «Giovanni».
Ma non c’è speranza. Basti che tra gli strumentalizzatori di Falcone c’è a tutt’oggi quel Leoluca Orlando secondo il quale Falcone voleva proteggere Andreotti. Poi, quando Falcone accettò l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse si fece ancora più infame. Ma basta così. ora. La verità è che Falcone e Borsellino avevano opinioni che oggi qualche deficiente attribuirebbe direttamente alla P2. Anche ora la voglia di raccontare le orrende strumentalizzazioni a cui i due furono sottoposti (dalla sinistra, dal Csm, da tanti professionisti antimafia tutt’ora in gran spolvero) è sempre forte, e a rileggere certe vecchie carte risale l’adrenalina. Il massimo sforzo bipartisan che si potrebbe fare resta questo: tacere. Ma c’è chi non vuole farlo.
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