Sangue, morte, giovinezza, velocità. C'era tutto, cinicamente, perché il dramma soprattutto umano, e perché no anche agonistico, di Simoncelli commuovesse, colpisse, scioccasse, incuriosisse, catturasse l'attenzione istantanea persino di chi non distingue una moto da corsa da uno scooter al semaforo. Un ragazzo nel fiore degli anni, un grande campione in divenire, un incidente spaventosamente brutale, una morte orribile consegnata all'ora di pranzo di una domenica d'autunno. Ingredienti "ideali" per qualunque tragedia. Ma stavolta c'è di più. Marco era sul serio uno come tutti. Un giovanottone "patacca", pastosa espressione romagnola per definire un animo semplice e quasi sempre generoso. Un ventiquattrenne uguale a chi, non arso dal fuoco di una passione elettrizzante come quella del mutur, fatica a trovare il lavoro. E questo, fatalmente, con la semplicità potente e rapinosa che sempre possiede ciò che è ovvio, l'ha avvicinato a milioni di ragazzi e ragazze d'Italia. Non una star alcolizzata alla Amy Winehouse, povera furente meteora precipitata dentro a un sistema di perdizione.
Poi c'è Kate, la fidanzata. Che ha detto cose come: "Lui aveva solo pregi, era una persona perfetta". E ha pianto con la dignità di chi è autentico, in mezzo alla falsità volgare degli stereotipi giovanili, dei reality tv. Poi c'è la dignità straordinaria, certamente comune a milioni di famiglie vere, del papà Paolo e della sua mamma coi capelli tinti da una pettinatrice di provincia. Il mondo di Sic racconta Sic: disegna l'identikit di un ragazzo speciale nella scandalosa, introvabile normalità di ogni giorno. Nessuno immaginava fosse così amato.
Ma i dettagli di quella morte orribile, con un gigante di metallo che gli arrota il collo lanciato a trecento all'ora nell'afa di una pista del sudest asiatico, non sono stati il forcipe della curiosità morbosa. Nessuno, né i media né la gente al bar ha speso in questi giorni osceni pettegolezzi sul corpo straziato di un pilota. No, di Marco ha colpito tutto fuorché ciò che, in qualunque altro caso, probabilmente avrebbe riempito di piombo (per mesi e mesi) i giornali di mezzo mondo.
Del Sic ha impressionato la vita. La bravura maturata in provincia, tra la via Emilia e il West, di uno come centomila. Di Simoncelli ha commosso l'italianità fuori dai riflettori, la storia non da rotocalco, la luce e non i lustrini. Esempio (involontario: figurarsi se si sarebbe preso tanto sul serio da sé) di distanza abissale dalle Caste. Bravo, dannatamente bravo nel suo mestiere. Una promessa troncata. La morte del Sic ha straziato perché, con lui, è morto un figlio, un fratello scanzonato. Era per di più un giovinotto simpatico, raccontano tutti. Regalo della romagnolità, senz'altro. Uno buono, dicono gli amici e quei rivali che gli piantavano i gomiti nel costato in piega e in curva.
L'Italia, bloccata davanti alla tv per i funerali a metà di un pomeriggio feriale, ha capito questo. Marco era uno vero. Le ragioni del lutto tanto sentito da bruciare nelle pance, nei cuori, di tutti è elementare: non era un eroe giovane e bello, come quelli che gli Dei amano sacrificare alla propria arroganza. Macché. E' morto troppo presto uno che non voleva essere mito. La sua morte cattura e spaventa. Perché, sgasando e rombando ai cancelli del Paradiso, il Sic ci dice che se ne va un pezzetto di speranza giovanile in un Paese sporcato dal declino.
Nessun commento:
Posta un commento