«Vergogna, vergogna!» gridava - di fronte al tribunale di Perugia dopo la sentenza di assoluzione per Raffaele ed Amanda - quel popolo, affamato di "bracciali" intorno ai polsi e gattabuia, per il quale è "meglio un innocente in galera che un colpevole in libertà": aberrante inversione del concetto in base al quale in dubio pro reo. Tradotto per i più assetati di "sole a scacchi": di fronte al dubbio, l’indagato non si condanna. Al di là di quel ragionevole dubbio contemplato dalla legge, in questa contestazione contro la giuria presieduta dal dottor Claudio Pratillo Hellman, "c’è soltanto la proiezione esteriore della voglia di sangue che anima una parte dell’opinione pubblica italiana", come ha recentemente ricordato Giovanni Alvaro: la tipica reazione degli sconfitti, che già pregustavano (pur non conoscendo a fondo le carte del processo) di poter godere ancora una volta dell’altrui sofferenza.
Si dice (e spesso si urla pure…) che le sentenze "si rispettano e non si commentano", ma nel caso perugino la prima a commentare pesantemente la pronuncia assolutoria della Corte d’assise d’Appello è stata proprio la pm del processo: in questo caso, però, nessuno si è ricordato di gridare «Vergogna, vergogna!».
E vi risulta, cari lettori, che qualcuno abbia gridato «Vergogna, vergogna!» quando, ad esempio, fu arrestato Filippo Pappalardi - accusato di aver ucciso i suoi due figlioli e di averne occultato i cadaveri – che poi fu scagionato completamente dall’infamante accusa? Chi aveva sbattuto in galera quell’uomo innocente, non meritava forse un simile grido? E invece il totale silenzio.
Lo stesso silenzio – anziché un qualunque «Vergogna, vergogna!» - è stato registrato di fronte al fatto che l’omicida filippino della contessa Filo Della Torre era stato intercettato vent’anni fa mentre discuteva della vendita dei gioielli da lui sottratti all’uccisa: sono stati impiegati quattro lustri per arrestarlo e scoprire che quelle intercettazioni erano finite in chissà quale polveroso archivio.
E sulla vicenda di Alberto Stasi ci permettiamo solamente di suggerire l’utilizzazione del nostro motore di ricerca.
C’è un detenuto che ha scritto al Presidente del Consiglio una lettera nella quale, tra l’altro, denunciava il fatto che i giudici titolari dell’inchiesta gli avrebbero fatto intendere l’esistenza di una svolta per lui positiva (scarcerazione/arresti domiciliari) solo se avesse risposto a domande che avrebbero comportato, in qualche modo, la corresponsabilità penale del presidente del Consiglio e di suoi diretti e stretti collaboratori. Quel detenuto è l’onorevole Alfonso Papa che, essendo deputato, per il popolo dei manettari, è colpevole "a prescindere". Per noi, invece (sperando che il fisico lo assista) il detenuto-Papa è un altro "eroe" che non baratta la fine della propria ingiusta (almeno fino a sentenza definitiva) detenzione con la collaborazione alla organizzazione di teoremi accusatori contro terze persone.
Continuiamo ad essere convinti – e senza provare alcun senso di vergogna - che nessuno sia colpevole prima dello svolgimento delle tre fasi di giudizio e, soprattutto, che nessuno può essere considerato il colpevole di un reato "a prescindere".
Peggio ancora se c’è chi ritiene la detenzione come uno "strumento" di indagine o utile per estorcere improbabili dichiarazioni: meriterebbe, lui sì, il coro del titolo di questo scritto.
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