Prima premessa: non sono un giurista.
Seconda premessa: però conosco abbastanza la società italiana e la sua storia.
Svolgimento. Il dibattito in corso sulla prescrizione arriva da molto lontano.
Viene da un Paese che diventò un giorno Stato di fragile democrazia, quasi ovunque impasto di privilegio sociale e di nobiltà latifondista. Lo presidiavano agrari e avvocati, tra i quali abbondavano, accanto a generosi idealisti, i tipi immortalati da Manzoni e da Gramsci, azzeccagarbugli nordici e paglietta meridionali.
Quel Paese, benché percorso dai venti della storia, ha mantenuto, si direbbe, una venerazione per il principio di impunità. Lo ha coltivato, ne ha fatto una sua inconfessabile ma irrinunciabile natura. Ha dato così forma nel tempo a un sistema democratico-impunitario segnato da una costituzione materiale anfibia: da un lato l’aumento dei diritti, dall’altro l’eternità dei privilegi. In esso si sono succeduti e intrecciati stragi e corruzione come in nessun altro luogo d’Europa. Gli autori dei crimini hanno scommesso ogni volta sulla propria impunità in virtù di una sapienza strategica straordinaria, trasmessa nei decenni per commissioni parlamentari, ministeri, uffici preposti all’ordine pubblico o alla sicurezza della nazione, piccoli e altissimi uffici giudiziari.
Ne è uscito un Paese speciale. Che si dà leggi sulla trasparenza, ma poi non le rispetta, né nei consigli comunali né in Parlamento e tanto meno nei partiti e nelle imprese. Che sa spiegare in punto di diritto perché le leggi scritte a tutela dei cittadini non valgano in questo e in quell’altro caso. Che sa sbattere in prima pagina i derelitti ma invocare la privacy per proteggere le malefatte dei potenti. Che, essendo anche cattolico, sa mescolare il culto dell’impunità con il valore religioso del perdono, sempre moralmente più nobile (vuoi mettere?) della domanda di verità e giustizia. E in cui, dovendo semplificare, la punizione opera solo contro i disgraziati; nel che sta, alla implacabile resa dei conti, il suo garantismo.
Poi, siccome ogni tanto questa regola si smaglia di fronte alle conquiste della cultura civile, o ai tanti eroismi e sussulti di dignità etica, il sistema ha escogitato progressivamente sempre nuove strategie impunitarie. Un fiume di leggi ad personam e di leggi speciali per mandare in pensione o precludere incarichi a singoli magistrati. Da almeno vent’anni, in particolare, sta alzando una muraglia minacciosa contro la libertà di parola, di denuncia e perfino di studio, attraverso migliaia di cause penali e civili temerarie contro cui, e non per caso, nessun governo ma proprio nessuno ha mai mosso un dito. Mentre da poco è stato lanciato in orbita e sempre più viene rivendicato il “diritto all’oblio” anche per fatti pubblici commessi da protagonisti pubblici, affinché la punizione oltre a non esserci nei tribunali non ci sia nemmeno nella pubblica memoria. Affinché, oltre alla responsabilità penale, si possa eludere anche la responsabilità morale.
Ecco, il dibattito sulla prescrizione nasce esattamente qui. In questo vorticare di strategie e di umori. Esso non è giuridico, come si sarebbe indotti a pensare, ma è squisitamente antropologico. E chiama in causa anche un sistema di reciproche convenienze. Perché la prescrizione è merce prelibata che l’avvocato può vendere al cliente facoltoso. Ma è anche riparo ideale per il magistrato incapace di condannare il potente, è culla della “giustizia chirurgica” diffusasi negli ultimi anni. Quella che prevede, al posto delle assoluzioni vergognose, belle sentenze severe “purtroppo” neutralizzate dalla prescrizione. Esito delle “giuste” imputazioni e di una gestione “scientifica” dei tempi del processo, così da beneficare insieme – come per prodigio – il giudice, l’avvocato e l’imputato. Il primo coraggioso (ma disarmato dal sistema), il secondo vincitore, il terzo “innocente”. Quanto alla vittima, essa non conta.
In un ordinamento penale cresciuto su queste premesse culturali è elemento naturalmente estraneo, come ripetono a ogni nuova legge i “garantisti”. Certo, ci sono le obiezioni tecniche alla legge Bonafede. Tanti denunciano l’intollerabile lunghezza dei processi che essa accentuerebbe. Eppure non si sono sentite quelle voci quando, prima ancora che Bonafede prendesse la laurea, i processi duravano decenni per effetto del manuale delle impunità. E nemmeno dopo, con la legge Cirielli, visto che, come ha spiegato di recente il giudice Giuliano Turone, i processi durano tanto proprio perché c’è la prescrizione. Quanto ai poveri diavoli così spesso evocati in queste settimane, diciamo che essi vivono nel nostro Paese una condizione beffarda: di essere vittime predestinate dei rigori della legge e al tempo stesso alibi, con le loro odissee, perché quei rigori non tocchino ai potenti.
Nessun commento:
Posta un commento