Gli studenti del ’68 avevano professori che si erano formati negli anni in cui la cultura dominante era comunque autoritaria e la società fondata su rigide gerarchie non solo di classe. Le proteste e le agitazioni di quella generazione potevano anche avere come bersaglio ufficiale le riforme troppo timide di una scuola che rimaneva chiusa alla società aperta dei consumi di massa e della elevazione di ceti fino ad allora tenuti ai margini. Ma in realtà si rivolgevano contro i professori e la loro mentalità che rimaneva di stampo autoritario. Lo scontro vero, dunque, era quello che si svolgeva giornalmente all’interno delle aule. E che consisteva nella resistenza dei professori alle novità della società italiana di cui gli studenti erano, per lo più inconsapevolmente, portatori. Gli studenti di oggi hanno invece professori che si sono formati nei decenni successivi al ’68 che hanno prodotto non solo l’apertura della scuola italiana alle novità della fine del secolo e dell’avvento del terzo millennio ma, soprattutto, la trasformazione della scuola da strumento di formazione in ammortizzatore sociale. Gli studenti di oggi, in sostanza, hanno professori che in nome della “fantasia al potere” hanno in realtà conquistato lo stato assistenziale. Ed, a differenza di quelli dei decenni passati, non hanno la minima consapevolezza che il loro vero avversario non si trova fuori dalle aule e si identifica in chi punta a ridurre l’assistenzialismo per ridare alla scuola la sua funzione originaria e naturale.
Ma è situato dentro gli istituti ed è rappresentato proprio da quei professori che, come quelli di cultura autoritaria del ’68, si barricano dietro le cattedre nel tentativo di impedire l’ingresso delle novità del tempo presente. Questa differenza di fondo tra ieri ed oggi dovrebbe far riflettere i giovani che in queste settimane partecipano ai cortei contro i tagli alla scuola pubblica. Perché può essere anche vero che non si possa riformare la scuola italiana solo sulla base del criterio delle esigenze del bilancio. Ma è altrettanto ed ancora più vero che scendere in piazza non in nome del proprio diritto di apprendere ma in difesa degli stipendi, oltre tutto umilianti, dei professori, rappresenta una battaglia destinata in ogni caso ad essere perdente. Perché può anche essere che grazie al sostegno ed alla partecipazione degli studenti, i professori espressione dell’assistenzialismo potrebbero riuscire a frenare, cambiare, annullare i propositi di riforma. Ma è certo che se la scuola rimane un ammortizzatore sociale e non torna ad essere lo strumento di formazione delle nuove generazioni, per queste ultime si profila un futuro drammatico e profondamente classista. Per loro non ci potrà essere assistenza alcuna. Chi avrà i mezzi e potrà studiare nelle costose scuole di qualità italiane o straniere riuscirà ad inserirsi nel mondo del lavoro in maniera soddisfacente. Per gli altri, cioè per la grande massa, l’unica prospettiva credibile sarà quella di un occupazione comunque insoddisfacente o, peggio, del precariato a vita. Per i ragazzi che scendono in piazza, allora, c’è un solo consiglio. Quello di non sbagliare avversario e di identificare quello giusto!
di Arturo Diaconale
L'OPINIONE DELLE LIBERTA'
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