Sono esattamente quarant’anni che ogni autunno porta con se scioperi, agitazioni ed occupazioni nel settore della scuola. Il fenomeno è diventato fisiologico. E bisognerebbe seriamente stupirsi e preoccuparsi se non rispuntasse con la solita regolarità come frutta di stagione. Quello attuale non è affatto diverso da quelli del passato. Nessuno si lasci abbindolare da chi sostiene che la protesta di oggi è molto più decisa e potente di molte del passato perché in ballo c’è il decreto Gelmini, il ritorno del grembiule e del maestro unico alle elementari ed i tagli imposti da Giulio Tremonti al settore. Non è affatto vero. Anzi, a ben guardare, le agitazioni in atto e quelle che si preannunciano sono addirittura più contenute rispetto ai molti picchi di contestazione registrati nel passato. Di diverso, semmai, ci sono le condizioni politiche. Che fanno del caso-scuola il primo terreno di verifica della capacità della maggioranza di centro destra di avviare un vago progetto di riforma del settore e della possibilità dell’opposizione di trovare nella tensione sociale provocata dal proposito riformista del governo la prima occasione per rialzare la testa dopo la sconfitta elettorale dell’aprile scorso.Ma il carattere sperimentale che la vicenda-scuola ha sia per il centro destra che per il centro sinistra non cambia di una virgola la sostanza del problema. La dimensione fisiologica del fenomeno non cambia.
In vista non c’è un nuovo ’68 o ’77. C’è solo la tendenza della nuova generazione a reiterare i comportamenti autunnali delle generazioni precedenti. E, naturalmente, c’è l’uso strumentale delle masse degli studenti da parte di partiti e sindacati che non vogliono perdere il loro tradizionale ruolo di terminali della parte parassitaria delle categorie che compongono le strutture scolastiche. A queste organizzazioni non importa nulla del grembiule o del maestro unico. Preme solo difendere ad ogni costo la funzione di gigantesco ammortizzatore sociale che la scuola italiana è diventata nell’ultimo quarantennio. La posta in palio, in altri termini, non è la scuola come strumento di formazione ma solo ed esclusivamente come strumento assistenziale per la parte consistente di un ceto intellettuale (maestri, professori ed operatori vari del settore di scarsa preparazione e di basso livello) che in assenza del sostegno dello stato non avrebbero altra possibilità di occupazione. Nessuno, ovviamente, si sogna di sostenere che gli incapaci, gli impreparati ed in generale i tanti pesi morti del settore della scuola debbano essere condannati alla disoccupazione. Il governo si deve fare carico dei loro problemi di sopravvivenza e ricollocazione.
Ma una considerazione del genere non può nascondere che la posta in palio delle agitazioni è solo la pretesa che la conservazione dell’assistenzialismo a favore di pochi venga fatta pagare all’intera comunità nazionale ed ai giovani in particolare. Insistere su questo punto non sarà mai sufficiente. Non solo per dimostrare la natura consuetudinaria e reazionaria delle agitazioni. Ma per convincere gli studenti, da quelli delle elementari a quelli delle università, che le loro occupazioni non dovrebbero essere indirizzate contro i primi tentativi riformistici del governo ma contro il conservatorismo egoistico dei professori. Il futuro dei giovani, infatti, non dipende dal mantenimento dell’assistenzialismo ma dal rapido ritorno della scuola alla sua funzione formativa originaria.
di Arturo Diaconale
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