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venerdì 21 novembre 2008

CSM, 50 ANNI DI FAZIOSISMO


Potere giudiziario
Le origini di un organo di autogoverno
Fu Scalfaro a plasmare la sua forma L’equilibrio è saltato negli anni 90
Gli scorsi giorni siamo stati affogati nella retorica celebrativa dei 50 anni dall’istituzione del Csm. Ovviamente è giusto che il Capo dello Stato che ne è costituzionalmente il presidente abbia detto quello che ha detto. Ma è sotto gli occhi di tutti che la storia di questo organismo di rilevanza costituzionale è una vicenda fatta per lo più di fallimenti, di intrighi di palazzo, di logica di politicizzazione della magistratura e di giustizia domestica. Quando i padri costituenti vararono la nostra Magna Carta ci furono tre punti lasciati volutamente in sospeso data la loro delicatezza. Tre temi scottanti che produssero provvisoriamente altrettanti vuoti che in seguito sarebbero stati colmati, tutti tranne uno, da successive leggi ordinarie e costituzionali. Il primo era la Corte costituzionale, che nascerà solo nel 1953, con la legge costituzionale numero 87; il secondo il Csm, che nascerà nel 1958 con la legge 44; il terzo e ultimo vuoto quello concernente il sindacato e la sua trasparenza amministrativa, regolata dall’articolo 39 della Costituzione, che invece non ha ancora trovato alcun attuazione. Pochi lo sanno, ma il Csm così come lo abbiamo conosciuto deve molto a un ex capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che non ha brillato nel suo settennato per imparzialità con una buona metà della popolazione italiana, quella che si riconosceva con il centro-destra. Fu la sua proposta di mediazione infatti a prevalere tra chi voleva un consiglio composto solo da magistrati e chi soprattutto da politici. Lui salomonicamente propose l’attuale composizione: un terzo di nomina politica e parlamentare, due terzi in toga, sia pure in parte scelta dal capo dello Stato stesso.
L’ex capo dello Stato Giovanni Leone, fine giurista, all’epoca disse che la magistratura doveva essere “un ordine per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere” e che il Csm doveva assicurare l’indipendenza dei suoi componenti. Se ne individuarono i compiti che il costituente onorevole Meuccio Ruini del Gruppo Misto pomposamente definì “i quattro chiodi”: nomine, promozioni, disciplina, trasferimenti. Nessuno si sarebbe immaginato che oggi, 50 anni dopo, a questi chiodi se ne sono aggiunti almeno altri due: censure preventive ai governi pro tempore sulla politica giudiziaria, difesa corporativa di tutta la casta in toga magari con un’applicazione domestica della giustizia disciplinare. Lungamente si discusse della sua composizione. Si fronteggiarono due tesi. L’una, ispirata dai magistrati e da quanti avevano a cuore una rigida interpretazione della divisione dei poteri (ad esempio gli onorevoli Pasquale Cortese, Aldo Bozzi, Francesco Maria Dominedò, Giovanni Perlingieri) pretendeva che il Csm fosse composto soltanto di magistrati. Motivo ufficiale? Solo in questo modo si sarebbe evitato “il rischio di contaminazioni” (onorevole Dominedò) e quello di far “penetrare la politica nelle decisioni singole; di far giungere indebite pressioni ed ingerenze professionali agli organi giudiziari” (onorevole Edmondo Caccuri, Dc ex magistrato). Motivo ufficioso? Già si prefigurava una formidabile arma di potere in mano alle toghe e alcuni politici, speravano di avere l’arma dalla loro parte e soprattutto dal verso del manico. La cosa strana è che i politici democristiani e di area liberale, come i succitati, non capissero cosa stesse bollendo in pentola. E prima della applicazione pratica, che avverrà solo dopo il 1948, della teorizzazione togliattiana dell’occupazione della magistratura si apprestavano a dare in mano ai comunisti questa formidabile arma.
L’altra tesi partiva, invece, dalla consapevolezza che bisognava evitare di creare un corpo separato e di fare il Csm despota dell’ordinamento della magistratura (onorevole Giuseppe Grassi dell’Unione democratica nazionale). Era da perseguire “l’esigenza di realizzare un’armonia istituzionale”, come sosteneva l’ onorevole Dante Veroni del Gruppo democratico del lavoro. Nonché “di assicurare continuità tra vita sociale e vita istituzionale e di far sentire un soffio di vita esterno all’ordine giudiziario”, sempre per citare l’onorevole Giovanni Leone. Ma anche, come sostennero con grande lungimiranza gli onorevoli Luigi Preti, Francesco Dominedò e Giovanni Persico, di “impedire la creazione di uno Stato nello Stato”, di una “casta chiusa e intangibile”, “separata e irresponsabile”. Insomma un “mandarinato”. All’epoca, quindi, questi timori li aveva la sinistra, ironia della storia. Anche se qualche Dc, come l’onorevole costituente Giuseppe Cappi, uno che invece aveva già capito cosa c’era in serbo per il futuro, disse che “un organo del tutto separato dagli apparati amministrativi dello Stato e sottratto al controllo dell’organo di rappresentanza popolare, dei mezzi d’informazione e della stessa pubblica opinione”. La proposta contenuta nell’articolo 97 del progetto originario di Costituzione assegnava al Csm una composizione paritetica, con la partecipazione “fuori quota” del Primo Presidente della Corte di Cassazione quale Vice Presidente. Nel contrasto fra le due scuole di pensiero si pervenne ad un compromesso e fu accolto l’emendamento suggerito dall’onorevole Oscar Luigi Scalfaro nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947: due terzi dei membri togati e un terzo di membri laici.
Se quell’emendamento risolse lì per lì le dispute tra i togliattiani e “il resto del mondo”, e si deve tenere conto che l’Italia non era ancora entrata nell’orbita atlantica come avverrà con le elezioni del 18 aprile 1948, il compromesso scalfariano negli anni seguenti al 1958 si rivelerà assolutamente insufficiente a sopire i tentativi dei partiti poltici di sinistra di strumentalizzare la magistratura così come il reciproco di ciò. Il Csm diventerà nel tempo la grande stanza di compensazione dove con la logica correntizia avverrà questa mediazione impossibile. E anche i giudici che hanno voluto fare carriera ne avrebbero dovuto prendere atto, tanto che ancora oggi se ne lamentano nei loro blog e lo hanno fatto in forze subito dopo il discorso commemorativo di Napolitano. Infine, e siamo ai giorni nostri, dopo l’inizio degli anni ’90 ogni equilibrio salterà definitivamente, con l’organo di autogoverno dei magistrati ridotto a puro registro notarile delle decisioni del sindacato togato dell’Anm, su tutto quanto concerne ogni aspetto dello scibile umano, a partire dai rapporti ormai impossibili tra politica e magistratura. Di lì nascerà il partito dei giudici e da lì partiranno le prime benedizioni a Di Pietro e al dipietrismo, così come di lì negli anni successivi nascerà l’opposizione “senza se e senza ma” al fenomeno Berlusconi in politica in generale e alla legittimazione del suo diritto a governare una volta eletto in particolare.
di Dimitri Buffa
da L'Opinione delle Libertà

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