..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

venerdì 26 dicembre 2008

CHE FINE HANNO FATTO I GIORNALISTI DI UNA VOLTA?

Come scrivevano bene i giornalisti italiani! Prendete un articolo, uno qualsiasi della raccolta curata da Beppe Benvenuto e F.M. Battaglia (Professione Reporter; Rizzoli; 649 pagine; 15 euro) e vi prende lo sconforto. Tutti, tutti, con l’eccezione di un Enzo Biagi largamente negato alla scrittura e di una banalità concettuale sconcertante, tutti gli altri insomma, vi prendono, vi portano nel racconto, vi spiegano, si spiegano. Insomma: fanno capire. Certo, i Besozzi, i Licata, i Flamini, avevano un handicap che li obbligava a saper scrivere: i loro lettori non sapevano nulla, ma proprio nulla di quel che scrivevano, se non per averlo appreso da altri scrittori. Non avevano visto nulla in una televisione che non c’era, non avevano sentito nulla da una radio che non emetteva se non canzonette e notiziari, non avevano intuito nulla –o troppo poco- da un cinema che era innanzitutto da telefoni bianchi, o neorealista, comunque sempre lontano dalla cronaca. E allora al reporter, all’inviato, toccava il compito duro di saperti prendere e di portarti di peso dentro la notizia, il posto, il contesto. A volte addirittura dentro gli odori, le sfumature, gli esotismi di un’Italia che nessuno conosceva. Si prenda il capolavoro di Tommaso Besozzi (autore anche di un fantastico pezzo sulla diaspora dei profughi istriani, “La paura li ha seguiti Venezia”) che smonta la falsa versione dei carabinieri sulla morte del bandito Giuliano, e si misura l’abisso che separa le penne di allora, dai “pistaroli” di oggi, tutti prezzolati portavoce al servizio di un qualche Pm d’assalto. Besozzi smonta la versione di un colonnello dei carabineri De Luca –dando peraltro pieno onore nella sua perseveranza- con etica professionale esattamente opposta a quella dei tanti cronisti di giudiziaria di oggi che ciclicamente giurano, invece, sulla bontà delle conferenze stampa accusatrici dei loro vanesi mandanti in toga.
Due, dunque, sono le ragioni essenziali per cui questo libro dovrebbe essere adottato come antologia nei licei e nelle università: perché ricorda una stagione lontana in cui per esser giornalista –aspirazione di massa dei giovani d’oggi, ahimé- dovevi scriver bene, molto bene, e perché intere ere geologiche sembrano trascorse dall’Italia descritta in alcuni di questi brani. Gianni Flamini, per dirne una, scopre sull’Avvenire che proprio davanti ad Albarella, mega villaggio turistico per miliardari, in pieno ’68 –solo 40 anni fa- centinaia di poveracci menano la vita di Pietro Nordi –detto il Muffa, per il fracicume delle sue ossa e della sua pelle a furia di vivere in palude- e son fiocinini: pescano di frodo anguille e cefali nelle paludi di Comacchio. E son arrestati e processati e vanno in galera e non son pochi, son tanti: 350 capifamiglia della zona che hanno accumulato ben 1200 processi. E poi Cesare Zappulli che se ne va a Manoppello, perché sui 262 minatori morti il 14 agosto 1956 a Marcinelle, una ventina venivano da quel paese in cui, semplicemente –questa è la notizia – “nessuna ragazza vuol più sposare un contadino”. Quindi, o in miniera, a rischiare, o nulla.
C’è anche altro, in questo libro. I saggi di Eugenio Scalfari sul miracolo italiano, due divertentissimi brani, il primo di Vittorio Zincone, che ci spiega nel 1946 che “Son poveri i deputati” e il secondo di Indro Montanelli che nel 1963 ci spiega che il “Panorama umano del Parlamento” è ormai tutt’altro, e che gli “onorevoli” se la passano benone. Poi c’è Iannuzzi sul “Piano Solo” del 1964 e lo scandalo Sifar; Lerner e Marcenaro che rompono l’omertà nella sinistra rivoluzionaria e danno voce su Lotta Continua al figlio di Andrea Casalegno, agonizzante per un vigliacco attentato delle Brigate Rosse; poi Pinelli…. Insomma, tutta la principale cronaca d’Italia sino al 1989, l’anno della svolta, che chiude la rassegna. E sempre più, via via che la televisione si afferma e si impone, il lettore cessa di stupirsi davanti alla riga del giornale, la parola, lo stile, l’affabulazione scendono di tono, di livello, si appiattiscono. La parola, insomma, insomma, cessa di esser regina. E lascia il posto al suono.
di Carlo Panella
da L'Occidentale

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