servizi segreti sono la prima linea di difesa di una nazione. Eppure ci ricordiamo di loro soltanto quando vengono colti di sorpresa o combinano guai, com’è successo con l’11 settembre 2001 e con i rapporti sbagliati sulle armi di distruzione di massa di Saddam. La pena della comunità di intelligence è che quando le cose vanno bene, cioè quando segretamente riesce a infiltrarsi tra i nemici, a fermare stragi e ad arrestare terroristi, non se ne può prendere il merito perché tutto avviene in modo riservato e clandestino. I servizi segreti o sono segreti, ovviamente sorvegliati da ristrette commissioni parlamentari, o sono una caricatura. Il rischio che sta correndo Barack Obama con la pubblicazione dei primi documenti legali sulle tecniche di interrogatorio e, entro la fine di maggio, anche di altri memo e di fotografie, è proprio quello di rinunciare a questa prima linea di difesa. L’idea di adattare i precetti nefasti del politicamente corretto anche alle questioni di sicurezza nazionale non è esclusiva di Obama, ma ha una lunga storia che risale agli anni successivi al Vietnam e al Watergate. Negli anni Settanta, la sinistra intellettuale americana non ha solo abiurato l’anticomunismo e l’interventismo democratico della tradizione kennediana, ma ha eletto la Cia a nemico pubblico numero uno, specie dopo i tentativi di uccidere Fidel Castro (l’ordine era stato dato da Kennedy) e il colpo di stato in Cile. Al Congresso di Washington, la commissione Church, dal nome del senatore democratico dell’Indiana che l’ha presieduta, indagò sulle azioni coperte della Cia e mise i guanti all’intelligence, costringendola ad agire soltanto sotto la stretta guida dei politici. I memo di cui si parla in questi giorni, così come le varie opportunità perse per catturare Osama bin Laden prima del 2001, sono la conseguenza diretta di quella stagione politica. Ora gli agenti della Cia, prima di muoversi cercano assicurazioni legali scritte per evitare responsabilità penali future. Il risultato è spesso la paralisi, il fallimento o il paradosso di chiedere agli avvocati del governo quante volte si può schiaffeggiare un detenuto per evitare di essere accusati di tortura.
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