..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

sabato 23 maggio 2009

T'IMMAGINI LA FACCIA CHE FAREBBERO...

Nell'estate del 2006, quella dello scandalo e dei mondiali vinti sotto il cielo di Berlino, l'allora Ministro delle politiche giovanili Giovanna Melandri, sull'onda nazional-popolare che prima aveva sommariamente giustiziato la Juventus e che successivamente si genuflesse all'inizio della nuova era del mondo del pallone, dichiarò che il calcio italiano era impegnato in due partite: una sul campo, con gli azzurri al mondiale, e l'altra fuori, con una squadra guidata dal commissario straordinario Guido Rossi. “Sono due partite che vogliamo tenere distinte – aggiunse l'ex Ministro - ma impegniamoci tutti a voltar pagina” . Con il senno di poi è facile poter dire che l'impegno non mancò, soprattutto nella partita più importante, quella lontana da telecamere ed occhi indiscreti. Alle parole seguirono i fatti.


In data 9 novembre 2007, il Consiglio dei Ministri approvò il decreto legislativo che cambiò radicalmente la vendita e la ripartizione dei diritti televisivi: dalla stagione 2010/11, non ci sarebbe più stata una titolarità soggettiva (spettante alle singole società di calcio), ma una contitolarità tra l'organizzatore della competizione (la Lega) e le singole società. Chi più chi meno, ne uscirono contenti in molti. Primo fra tutti, il Governo, che riuscì a ridisegnare una materia tanto delicata quanto complicata. Soddisfatta fu anche la Lega Calcio, che vide accolto il suo criterio di ripartizione degli introiti: il famoso «40-30-30», suddivisione che prevedeva un 40% degli introiti equamente suddivisi tra tutte le società, un 30% sulla base dei risultati sportivi (un 10% sulla base dei risultati conseguiti dal 1946, un 15% sui risultati degli ultimi 5 anni e un 5% sull' ultima competizione) ed il rimanente 30% diviso secondo il bacino d'utenza (il 25% calcolato sulla base del numero dei sostenitori e il 5% sulla popolazione del comune di residenza del club). Ovviamente, furono felici anche i piccoli club che vedevano in prospettiva aumentare i propri introiti. "Il calcio italiano sarà più equo: il divario, che è oggi 7-8 a 1, si ridurrà a 4 a 1", affermava la Melandri, che parlò anche di altre riforme (stadi di proprietà in primis). Tutti contenti? No, la serie B sfiduciò il presidente Matarrese, chiedendo più soldi ("almeno il 6% della fetta della mutualità, ma vogliamo il 15%", dichiarò Giorgio Lugaresi, vicepresidente di Lega per la B). Ma la riforma, oltre ad assottigliare il divario tra grandi e piccoli club, avrebbe dovuto aumentare la concorrenza televisiva e gli operatori coinvolti. Tra i principi dettati dalla legge ci fu, infatti, il divieto di acquisto di tutti i diritti tv da parte di un solo operatore. Il ministro Gentiloni sottolineò come "i prezzi dovranno essere commisurati al bacino d'utenza. C'è differenza tra i 4 milioni di abbonati di Sky e i 40 mila abbonati di Alice". In pratica, anche alle piccole società fu permesso di entrare nei salotti bene del calcio italiano. Ma qualcosa deve non aver funzionato.
A distanza di quasi due anni la spaccatura tra la serie A e la serie B ha raggiunto il grado di collasso. Terminata definitivamente l'era Matarrese, si è spianata la strada alla nuova “Superlega” . Il divorzio tra la A e la B, consumato nel tempo e logorato da interessi troppo diversi perché il matrimonio potesse funzionare ancora, a livello pratico è rimasto invariato, mantenendo le promozioni e le retrocessioni, così come la mutualità: oggi la A versa alla B circa 70 milioni di euro e continuerà a farlo. “L'accordo è garantito fino al 2010, – spiega Adriano Galliani – poi ci saranno una Lega di A, una di B e una di C e succederà ciò che è successo già in molti altri Paesi d'Europa. Le promozioni e le retrocessioni continueranno a esserci ed i soldi alle società di B saranno dati regolarmente perché nessuno vuol fare la guerra ai cadetti” .
Eppure qualcosa continua a non tornare.
Con la nascita della Lega di Serie A e la conseguente separazione dalla B, lo scenario di altri fallimenti sportivi diventa, inevitabilmente, ancor più facilmente realizzabile. I debiti accumulati dal sistema calcio hanno raggiunto livelli sempre più insopportabili, soprattutto per le squadre cadette e ancor di più per le piccole, costrette a salti mortali con le poche risorse che hanno (leggi soprattutto plusvalenze da cessione calciatori) pur di non “morire”. C'è da pensare che nell'ultima seduta della Lega Calcio “unita” è stato compiuto il primo passo verso il progetto della “Superlega”, che fu ideato e voluto da Inter, Milan e Juventus e che a suo tempo fu solo riposto in un cassetto in attesa di tempi migliori(?). Ancor più di prima, adesso chi avrà alle spalle un azionista forte potrà resistere, altrimenti inizieranno tempi bui, con la conseguente possibile cancellazione. Il rischio di vedere sparire i club di provincia, che lasceranno spazio alle squadre delle grandi città, crescerà a dismisura. Società come Chievo e Siena, che alternano la permanenza dalla A alla B, hanno votato per la scissione, forse non comprendendo che il fine è l'eliminazione del principio di mutualità. In soldoni: chi va in B non avrà più un centesimo di euro e dovrà arrangiarsi come può.
E allora mi sorge un dubbio: come si può sostenere il costo di una retrocessione, con le conseguenze di una stagione nella serie minore, se gli introiti caleranno drasticamente? Se si prende in esame il riferimento al dato dei ricavi del Bologna stagione 2004/05, la risposta è subito pronta. La percentuale in negativo ha segnato un meno 62% (13,62 milioni contro i precedenti 35,68 milioni) nell'anno successivo in cui disputò il campionato cadetto. Nello specifico, si ha un calo importante sugli incassi allo stadio: la differenza in negativo rispetto al 2004/05 fu di 4,24 milioni. Ed all'allora presidente Alfredo Cazzola, a nulla servì una ferrea politica di tagli dei costi, diminuiti drasticamente del 46%. Lo squilibrio costi-ricavi fu pari a 8,96 milioni e si incrementò del 48% rispetto all'anno precedente. Cifre di allora, ma che fanno capire, ancor di più oggi, come una piccola realtà della geografia calcistica che nei prossimi anni dovesse subire l'onta di una retrocessione potrebbe trovarsi in seria difficoltà, con il rischio concreto di sparire.
Ora. Ci hanno raccontato di un nuovo calcio, pulito definitivamente dalle incrostazioni lasciate da una banda di truffatori. Addirittura una legge (Melandri/Gentiloni) ha fatto da specchietto per le allodole a tutti coloro che, in nome di una nuova era (simile a quella di Obama), hanno voluto credere che ci poteva essere spazio per tutti, ripartendo denari e trionfi. Quella stessa legge adesso la si vuole abrogare. Allo stato attuale, si sta approvando una legge in Parlamento sugli impianti sportivi e nessuno vieta di pensare che ci sia il rischio che serva soltanto ai grandi club.
La crisi economica che ha colpito indistintamente qualunque settore si accinge ad operare anche nel pianeta calcio. I già precari equilibri che permettono ai club minori di sopravvivere stanno cedendo, giorno dopo giorno e se, come probabile che sia, la “Melandri-Gentiloni” dovesse essere abrogata, per la felicità dei grandi club, la spaccatura porterebbe una volta e per sempre i grandi da una parte e i piccoli dall'altra, con vantaggi enormi per i primi e la “fine” sportiva per i secondi. Le cifre che arrivano da oltre confine confermano la voragine che un sistema privo di regole è riuscito a creare. Non saranno ai livelli dei titoli tossici statunitensi, ma poco ci manca. La finale di Champions League varrà qualcosa come 1399 mln di euro, di debiti. Questa è infatti la somma delle pendenze del Manchester United e del Barcellona nei confronti del fisco. Rispettivamente 960 mln per la squadra di Ferguson, 439 per la formazione in cui militano Messi e Henry. Le due società più indebitate d'Europa in finale nella competizione più prestigiosa del Vecchio Continente. L'Inghilterra conta oltre 2,7 miliardi di pendenze arretrate, mentre la Spagna, che è decisamente messa peggio, ne conta 3,5 miliardi. Nonostante Manchester e Chelsea abbiano gran parte dei debiti nei confronti dei loro proprietari, che ripianano le perdite di tasca propria.
E in Italia? L'Inter ha "solo" 148 mln di euro di debito, mentre l'unica squadra in grado di chiudere il bilancio in attivo, nello scorso anno, è stata l'Udinese. Platinì ha avvertito tutti: “Nelle nostre coppe chi ha debiti non gareggia” .
E come si fa ad escludere Manchester United, Barcellona e Chelsea dall'Europa? In Italia si corre ai ripari. La spaccatura fra A e B (il 25 maggio avremo una risposta definitiva) finisce col catalizzare tutti gli introiti televisivi - i 900 milioni - sulle società di A. Nel 2007 il Fisco italiano avanzava qualcosa come 754 mln di debiti da parte di 102 società sportive di calcio su 193. Solo in A si contavano 376 mln. Gran parte di quei debiti erano causa dei fallimenti, Parma soprattutto (81 mln mai restituiti). Altri 47 mln mai restituiti erano dovuti dalla SS Calcio Napoli Spa. La Napoli Soccer Spa ne sarà esente. Idem, ad esempio, per Torino Calcio Spa e Torino FC.
Ecco che allora tornano sempre alla ribalta i diritti televisivi, questi ultimi in grado, con i loro 900 mln, di ripianare i buchi creati: nel 2008 solo Inter e Milan sfioravano i 200 mln. Ma i debiti restano comunque da pagare. Le società che li pagano a rate, secondo le vecchie normative, lasciano un buco, anche se momentaneo. E chi lo chiude? Ma naturalmente noi. Se poi, a tutto questo ci aggiungiamo l'acquisto di un abbonamento a Sky o a Mediaset Premium, ecco che non rimane difficile capire che oggi, il calcio, oltre a vederlo agli orari che vogliono “loro”, ci tocca pure pagarlo due volte.
Era il 1985 quando Vasco Rossi cantava: "T'immagini la faccia che farebbero se da domani davvero, davvero tutti quanti.......spegnessimo!"

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