In estate, calcisticamente parlando, ci si annoia sempre un po’. Prima che farsopoli trasformasse il nostro campionato in uno spettacolo indegno del più scalcagnato tra i luna park, luglio e agosto erano i mesi in cui gli interisti si dedicavano ai due sport da loro preferiti: le geremiadi (ma quelle erano ininterrotte 12 mesi all’anno) e i sogni ad occhi aperti. Compravano Caio e si sentivano campioni d’Italia. Si accaparravano Gresko ed assaporavano la Champions League. Sfogliavano Playboy e fantasticavano sulle imminenti avventure amorose con bionde mozzafiato che li attendevano tra le lenzuola. Era inutile osservare, pochi mesi dopo, quei maledetti individui vestiti in bianconero alzare l’ennesimo trofeo, così come il loro spirito non veniva minato neppure dal letto che, anziché ospitare Pamela Anderson, restava desolatamente vuoto: bastava un altro giro in edicola, pochi euro per la Gazza e un paio di riviste patinate, ed il loro viaggio in una realtà virtuale poteva continuare.
Poi arrivò il 2006 e le cose, almeno in parte, cambiarono: per il momento, pare che Guido Rossi non sia intenzionato a rilevare la mitica rivista americana, e le conigliette di tutto il mondo possono tirare un sospiro di sollievo. Ma l’altra metà dell’utopia si è avverata: l’inter, dopo tanto penare, vince. In Italia lo fa da quattro anni, praticamente senza rivali; in Europa, in un modo o in un altro, c’è riuscita quest’anno.
Verrebbe da pensare che il popolo nerazzurro, che negli anni passati stremava le proprie menti e le proprie membra in attività onanistiche, finalmente abbia trovato la pace dei sensi. E invece no. Il lungo penare di tutti questi anni li ha evidentemente turbati irrimediabilmente e così la loro guida spirituale, nonché presidentissimo della seconda squadra di Milano, ha voluto ancora una volta regalarci una chicca delle sue: «È meglio vincere con 11 stranieri che comprando le partite».
Quella frase, che in un primo momento avevo relegato tra le misere boutade di un povero di spirito, mi ha poi fatto riflettere. Anche perché ho ripensato ad un dialogo che ebbi, qualche tempo fa, con un grande intenditore di vino. Mi ritrovai a confrontarmi su alcune bottiglie, ma in breve mi dovetti arrendere: la sua esperienza era clamorosamente più ampia della mia. Mi raccontò (e avevo ragione di credergli) di avere più volte degustato il mitico Romanée-Conti, così come un gran numero di Bordeaux da svariate centinaia (se non migliaia) di euro a bottiglia. Insomma, da lui c’era solo da imparare. Meglio un grande Bordeaux o un grande Borgogna? Meglio vincere con 11 stranieri o rubando? Solo chi ha esperienza diretta sa dare una risposta in merito.
Ho smesso da un pezzo di prendermela per le battute di quel signore che, pur di vincere, ha accettato di buon grado la distruzione completa di un campionato fino a pochi anni fa invidiato da tutto il mondo. A dire la verità, mi fa anche un po’ pena: ha soldi e potere, ha raggiunto, in un modo o nell’altro, il proprio obiettivo “sportivo” (se così si può collocare un’attività in cui a decidere sono pseudo-tribunali del popolo, che celebrano i propri processi-lampo nelle hall degli hotel). Eppure è evidente il suo disagio, che lo costringe a fare gesti dell’ombrello verso le tifoserie avversarie, mentre la propria squadra vince, e a vantare un pedigree di onestà che non gli invidierebbe neanche il Conte Oliver del gruppo Tnt. E dire che dovrebbe essere fiero di se stesso. È talmente importante da essersi meritato addirittura una citazione da parte di Bob Dylan, che già nel 1966 cantava: “To live outside the law, you must be honest”, per vivere al di fuori della legge, bisogna essere onesti. Un verso che calza proprio a pennello alla squadra nerazzurra.
Su con il morale, Mr. President, anche oltreoceano sono d’accordo con voi nerazzurri.
1 commento:
bellissimo articolo, sei un vero artista!
saluti
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