Quando succedono cose come quella che è accaduta a Marco Simoncelli, anche la vita all'interno di una redazione si ferma per qualche istante: occorre un po' di tempo per capire, per elaborare, per analizzare la situazione e dire... Ok, che si fa adesso?
E per quanto difficile, perché tutti qui siamo malati di sport, e abbiamo le nostre passioni, i nostri miti e i nostri campioni prediletti, uno del gruppo si stacca e cerca di scrivere qualche riga che abbia un senso per esprimere lo sgomento di quando sport e agonismo ti riportano drammaticamente alla vita.
Ho seguito la diretta televisiva, ho visto e rivisto le immagini e accolto con un certo senso di fastidio la necessità del dover capire a tutti i costi fin da subito perché succedano certe cose.
Vado in moto da tanti anni, sono un grande appassionato di motociclismo: e tutte le volte che prendo la moto, da quando ho 14 anni a oggi che ne ho 46, so che devo stare più attento di un pedone, di un ciclista, di un automobilista, di una qualsiasi altra persona incrocerà la sua strada con la mia. Perché la moto è bella, affascinante e pericolosa: per quanto tu sia protetto e per quanto la sicurezza, anche sulla pelle di ragazzi come Simoncelli, negli ultimi anni abbia fatto passi da gigante.
Ricordo ancora la morte di Pasolini e Saarinen, e avevo pochi anni... figuriamoci se non ricordo quelle di Tomizawa, Kato e Wakai. Si parla, magari meno, delle vittime su circuiti meno conosciuti o famosi: come quella di un ragazzino di appena 13 anni, Peter Lenz, deceduto recentemente durante una gara contestuale al Motomondiale sulla pista di Indianapolis. O quella di che nel 2008 toccò al 23enne Craig Jones nella categoria Supersport.
Se oggi il mio giubbotto è di un certo tessuto, se il mio casco ha determinate protezioni, se dietro la schiena porto la conchiglia, lo devo a vittime come loro: la mia moto va più veloce di quella che guidavo 25 anni fa, quando volevo andare forte ed essere un po' come Lucchinelli. Ma oggi, paradossalmente, sono un papà che va piano sulla sua moto grande e potente. Sono uno che sta ancora più attento e probabilmente cercherà di convincere suo figlio a non chiedermi il motorino.
Dunque..., perché? Non so se la mia risposta piacerà: credo non sarà soddisfacente per chi cerca un perché a tutti i costi.
Quando su un circuito di motociclismo vieni investito com'è stato investito lui, credo ci sia poco da analizzare: si tratta di quel rischio, di quella 'sfida alla sorte' che ci fa sembrare questi ragazzi capaci di qualsiasi impresa, quasi immortali. Ma immortali non sono. Vanno forte, sempre più forte, esprimendo una guida aggressiva. Ma di fronte a certe cose siamo tutti indifesi. Tutti...
Di fronte a certe tragedie gomme, elettronica, caschi, motore, pinze, lasciano il tempo che trovano: proviamo ad analizzare tutto, ma proprio tutto per convincerci che qualcosa potesse essere fatto per evitare che una persona divertente e brillante come Marco ci lasciasse a soli 24 anni. Com'è giusto che sia. Facciamolo da domani. Magari con l'aiuto di uno come Uncini, che a un incidente come quello che ha ucciso Simoncelli è sopravvissuto nel 1983, ad Assen, dopo 24 ore di coma e oggi è responsabile della commissione sicurezza dell'Irta, l'associazione dei team che corre il motomondiale.
E magari scopriremo che è stata la pedana a tagliare la protezione del casco di Marco, e da domani avremo chiusure ancora più rigidi e sicuri. E la chiameremo Chiusura SuperSic.
Forse l'unica tutela è quella che uso anche io: andare più piano nonostante sia possibile avere a disposizione una moto più veloce e potente. E probabilmente non basterebbe nemmeno quello.
Oggi mi viene solo da pensare, e da scrivere, che Marco sia stato molto sfortunato. Lui, e tutti noi, che perdiamo una persona brillante, irriverente, divertente e trasversale.
Adoravo ascoltare i suoi sproloqui su Virgin Radio con Ringo; avevo letto il suo libro scritto con Paolo Beltramo: si intitolava "Diobò, che bello"... e il titolo diceva già molto ma il libro spiegava molto altro di questo ragazzo davvero affascinante e piacevole da incontrare, dentro e fuori dalla pista.
Rossi, suo grande amico e suo malgrado coinvolto nell'incidente, qualche settimana fa lo aveva definito "bastardo" per come Sic lo aveva superato. E detto da Rossi, con quel mezzo sorriso e quell'accento che li accomunava così tanto, era un gran complimento.
C'è un perché? Magari ci fosse sempre: forse è stata la sorte. Stavolta ha vinto lei, e noi perdiamo Marco.
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