Cerchiamo anzitutto di riassumere quanto è accaduto negli ultimi mesi. Il successo elettorale conseguito dal MoVimento 5 Stelle è andato al di là di ogni realistica previsione: 163 parlamentari per una nuova forza politica rappresentano di per sé una vittoria. Il MoVimento avrebbe voluto cominciare a lavorare seriamente nel Parlamento, ma questo non è stato possibile. Si è tentato di costringerlo a un voto di fiducia ad un governo a guida Bersani che con il senno di poi avrebbe implicato lo strangolamento dello stesso MoVimento. Il PD era già sull’orlo del precipizio e il MoVimento sarebbe finito nel baratro insieme a lui. Ecco perché la linea di non accettare l’accordo, un accordo finto perché mirante soltanto agli interessi del PD, era del tutto condivisibile. Tuttavia si sarebbe potuto cominciare a operare e lavorare costruttivamente nel Parlamento e invece si è voluto impedire il funzionamento di quello che è il cuore della nostra democrazia. E così un movimento che mira alla democrazia diretta ha dovuto farsi paladino della stessa democrazia rappresentativa tradita dagli altri partiti. La crisi continuava e si avvitava su se stessa. Il governo era in carica, ma il Parlamento paralizzato.
Tutto nell’attesa del nuovo Presidente della Repubblica e del conferimento di un nuovo incarico di governo. Alle Quirinarie il MoVimento ha votato con il cuore e con la testa, proponendo come primi tre nomi una donna, Milena Gabanelli, e un uomo, Gino Strada, della società civile e un giurista di caratura internazionale, Stefano Rodotà. Alla fine dopo la rinuncia dei primi due candidati è subentrato il terzo, una delle figure più autorevoli della cultura giuridica nel nostro paese e che pur nella sua indipendenza (è stato un tempo uno degli indipendenti di sinistra) ha sempre appartenuto alla sinistra. Sembrava quasi naturale che un partito sedicente di sinistra potesse convergere su questo nome. Un uomo di quella levatura giuridica sarebbe stato comunque il garante di tutti e avrebbe svolto la sua funzione di super partes, fondamentale per un Presidente della Repubblica. E invece hanno offerto al popolo italiano uno spettacolo indecoroso e, diciamolo pure, mortificante per le persone che sono state mandate al massacro: prima Marini e poi Prodi. A questo punto non restava altro che constatare la completa dissoluzione, liquefazione di un partito, quello democratico, che sin dal suo inizio era attraversato da latenti contraddizioni. Su questo deserto non c’era altra via per ricompattare quel che restava della partitocrazia che recuperare Re Giorgio. Ma cosa è avvenuto nella votazione di ieri sera? Suscitando lo sdegno di tutti ieri Beppe Grillo ha parlato di un "colpo di Stato, che avviene furbescamente con l’utilizzo di meccanismi istituzionali". Si tratta di un’affermazione che può sembrare del tutto inadeguata e addirittura pericolosa, così la giudica infatti tutta la stampa unanime, perché quando si parla di golpe siamo abituati a pensare a un colpo militare, a un cosiddetto pronunciamiento, per usare l’espressione della tradizione spagnola. Esistono tuttavia svariate tecniche del colpo di Stato, come già aveva mostrato Curzio Malaparte nel suo saggio del 1931. Quello classico fu attuato da Luigi Bonaparte nel 1851 quando diede il colpo di grazia a quella Repubblica di cui lui stesso era Presidente per riuscire a farsi proclamare Imperatore di Francia. La cosa è ben descritta in un celebre saggio di Karl Marx del 1852, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Ci fu in quel caso una violazione dell’assetto costituzionale esistente e un suo mutamento: il Presidente divenne Imperatore dei francesi. Non è quello che è avvenuto ieri in Italia. Il Presidente è restato Presidente, non è stato incoronato Imperatore, ma è il primo Presidente della storia repubblicana ad assumere due mandati contro quella che era sino ad oggi una consuetudine costituzionale, quella cioè contraria ad una rielezione del Presidente della Repubblica. Inoltre è il primo Presidente della Repubblica ad essere applaudito in Parlamento, ma oggetto di una sollevazione popolare nelle piazze d’Italia. Il Coup d’État per Gabriel Naudé, che per primo se ne occupò nel 1639 nelle sue Considérations politiques sur le Coup d’État, ha le più svariate caratteristiche e tende pure a confondersi con la “ragion di Stato”. Ebbene è proprio questa ragion di Stato che ci ha consegnato ieri la rielezione di Napolitano.
Lo stesso Napolitano d’altro canto qualche mese fa aveva messo in evidenza i rischi per la democrazia di un suo secondo mandato. Riportiamo qui integralmente il testo di una lettera scritta da lui al quotidiano, oggi non più esistente, “Pubblico” e pubblicata il 28 settembre 2012: “Caro direttore, Le scrivo per sgomberare – spero definitivamente – il campo da ogni ipotesi di ‘Napolitano bis’. Non è solo un problema di indisponibilità personale, facilmente intuibile, da me ribadita più volte pubblicamente. La mia è soprattutto una ferma e insuperabile contrarietà che deriva dal profondo convincimento istituzionale che il mandato (già di lunga durata) di Presidente della Repubblica, proprio per il suo carattere di massima garanzia costituzionale, non si presti a un rinnovo comunque motivato. Né tantomeno a una qualche anomala proroga.”. Evidentemente Napolitano ci ha ripensato. La vecchia stagione del compromesso storico doveva concludersi con un inciucio storico ed è per questo, contraddicendo quanto da lui stesso affermato, che alla fine ha accettato il secondo mandato.
Non vi è dubbio che tutto sia avvenuto ancora una volta nel solco della legalità, ma la legalità in questo caso è diventata un’arma contundente con la quale si è voluto colpire il popolo italiano. I partiti moribondi hanno ricevuto una boccata di ossigeno, ma avranno ancora qualche mese, al massimo un anno di vita, non di più, perché il virus del MoVimeno ha ormai infettato il loro corpo e non si riuscirà più a debellarlo.