La stagione era iniziata come in molti non avrebbero voluto, sperato.
Le ultime settimane della gestione Graham erano state turbolente, e l'epopea del "Boring Arsenal" era giunta al suo epilogo.
La stagione 1994/1995 vide l'esonero dell'allenatore di Bargeddie e l'avvento di Stewart Houston, che, seppur con notevoli difficoltà, riuscì a far uscire l'Arsenal dalla zona retrocessione portandolo alla finale di Coppa delle Coppe.
In quella stessa stagione, a sud della Manica, un giovane allenatore che aveva detto di no alle richieste del Bayern di Monaco per rispettare il suo contratto con il Monaco veniva licenziato dallo stesso Club del Principato.
Peter Hill-Wood venne convinto da David Dein a prendere contatto con quel tecnico emergente.
L'incontro si svolse, presso lo Ziani's Restaurant, ma non se ne fece nulla.
"La tensione di quel periodo ci impedì di affidare la panchina ad uno straniero", ricordò negli anni a seguire Hill-Wood.
Erano anni in cui l'Inghilterra calcistica non vedeva di buon occhio lo straniero, e l'esperienza di Josef Venglos sulla panchina dei Villans (allora unico tecnico straniero in Premier League) convinse il Board ad affidare la gestione della squadra a Bruce Rioch, che succedette nella stagione 1995/1996 a Stewart Houston.
La qualificazione alla Coppa Uefa ed il quinto posto in classifica non bastarono per convincere la società, visti anche gli sforzi economici che si fecero per portare a Londra elementi come Ian Wright, Denis Bergkamp e David Platt.
Inoltre i rapporti personali tra il manager e buona parte della squadra (soprattutto con alcuni elementi della vecchia guardia) non erano idilliaci.
"Durante un allenamento Rioch disse a Wright: 'Se al tuo posto ci fosse stato John McGinlay avrebbe fatto goal'. L'ultima cosa che ricordo di quel giorno fu vedere Ian ritornare negli spogliatoi dopo aver mandato a quel paese Rioch."
Il ricordo di Paul Merson spiega meglio di qualunque approfondimento la fine fisiologica del periodo di Rioch all'Arsenal.
Nell'aria si respirava il cambiamento, la voglia ed il desiderio di voltare per sempre pagina.
Un nuovo Arsenal stava definitivamente per nascere.
Nell'estate del 1996 un terzetto composto da Dein, Hill-Wood e Fiszman si imbarcò volando sino in Giappone, terra che aveva abbracciato quell'allenatore emergente tanto voluto da Dein.
Anni dopo Hill-Wood ammise: "Rioch venne assunto perché ci mancò il coraggio di puntare su di uno straniero, ma forse non fu un errore".
Quell'esperienza giapponese forgiò compiutamente il talento di quel giovane allenatore. Jurgen Klinsmann definì così il ritorno in Europa di quell'uomo che lo guidò nel periodo monegasco: "Non è più quello di prima. Ora ha più autostima ed è finalmente pronto per guidare una grande squadra".
In quell'ora di colloquio, in quella stanza d'albergo, le strette di mano furono sufficienti per sancire uno degli accordi che cambiarono per sempre la storia dell'Arsenal, della tradizione e della cultura del calcio anglosassone.
Il 12 ottobre del 1996, davanti ai 24303 spettatori paganti di Ewood Park, l'Arsenal scese in campo contro i padroni di casa del Blackburn Rovers.
In panchina non sedeva più Rioch, esonerato con qualche giorno di anticipo sulla prima di campionato, né Houston, al quale il Board si rivolse per chiedergli di traghettare la squadra fino all'arrivo del nuovo tecnico.
E nemmeno Pat Rice, che guidò i Gunners fino a quel sabato pomeriggio dopo che Houston preferì accettare l'offerta del Queens Park Rangers.
Quando l'arbitro Dunn di Bristol fischiò l'inizio del match, nessuno, compreso il protagonista, avrebbe potuto immaginare che quella data avrebbe scritto una delle pagine più importanti della storia del football anglosassone.
In quel sabato pomeriggio autunnale del 1996 il calcio britannico venne investito dall'arte di un uomo che cambiò radicalmente la gestione e l'organizzazione di un Club professionistico di calcio.
Il resto è storia.
Una storia costellata di trofei vinti, di giovani talenti prima scoperti e poi lanciati nel mondo del football, di record che difficilmente verranno battuti, come quello conseguito dal 7 maggio del 2003 al 16 ottobre del 2004, in cui i Gunners rimasero imbattuti per 49 match di campionato.
Ma di quell'allenatore emergente, di quell'uomo formatosi nella terra del Sol Levante vanno ricordate altre cose.
Va rimarcato il suo essersi spinto a costruire il futuro di uno dei Club ad oggi più popolari del globo, va evidenziata quella filosofia che ha insegnato ai più il saper perdere, uscendone più forti di prima.
Oggi ci si sofferma troppo sul periodo senza trofei vinti dal Club di Londra, imputando questo al manager alsaziano.
Come se la vittoria fosse l'unica ragione per cui ci si allena, per cui si scende in campo, per cui si compra una maglietta o si fa un abbonamento allo stadio.
Come se un periodo senza coppe alzate al cielo fosse sinonimo di inneficienza, di incapacità e ancor peggio di indifferenza calcistica.
Eppure anche l'Ungheria degli anni '50 non vinse nulla, anche l'Olanda degli anni '70 non si fregiò di alcun titolo, anche quel meraviglioso Brasile degli anni '80 se ne tornò in patria con un pallone bucato e parecchie magliette strappate.
Ma oggi non si pensa a quelle meravigliose squadre come non vincitrici di Coppe del Mondo o di Coppe Europa, ma bensì a formazioni che dipinsero football, a giocatori che fecero sognare intere generazioni, ad una filosofia calcistica che donò al mondo intero un modo nuovo di fare football.
Proprio come l'Arsenal, finito negli ultimi anni in ginocchio ma capace di divertire, di far sognare, di regalare al pubblico pagante emozioni che nessun trofeo sarebbe stato in grado di pareggiare.
Nelle 1000 panchine di Wenger c'è tutto questo.
Quell'arte del possibile che ha consacrato prima l'uomo che il manager. Un uomo gentile, educato, intelligente, capace, che ha dato tutta la sua vita all'Arsenal Football Club: "My job is to give people who work hard all week something to enjoy on Saturdays and Wednesdays".
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