..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

mercoledì 15 gennaio 2020

Il Bastiancontrario


Il miglior modo di ricordare Giampaolo Pansa è leggerlo. Apro a caso uno dei suoi libri che preferisco, Carte false del 1986. Pagina 180, “Toro Silente”: è il ritratto di Ettore Bernabei, il boiardo fanfaniano della Rai, dell’Iri e di tante altre cose. Una delizia. “Era il braccio armato di Fanfani, il von Moltke del Bismark di Pieve Santo Stefano. Imponente, l’aria cogitabonda, si collocava sempre alle spalle del suo signore, un po’ per proteggerlo e un po’ per essere pronto a raccogliere gli ordini d’attacco. Per cui la formazione di battaglia risultava la seguente. Davanti, come ‘Pippo il ricognitore’, avanzava saltellando il ben noto Cresci. Poi, scattante, nervoso, arcigno, saettante, veniva Fanfani. Infine lui, Ettore Bernabei, da Firenze, classe 1921, il militare, lo stratega delle guerre di potere fanfaniane e, insieme, il fulmine nelle mani del dio aretino. Mentre Cresci parlava, parlava, parlava come un disco rotto, Bernabei era famoso per i suoi mutismi in pubblico. Pur avendolo avvistato mille volte nei dintorni della Balena Bianca… non ricordo una sua risposta più lunga di due sillabe. S’aggirava nel patio di Palazzo Sturzo, che è le Botteghe Chiare della Dc, come un toro silente, il capoccione proteso in avanti quasi a dar cornate, gli oblò ben aperti e la bocca cucita…”. Questo era Pansa: uno splendido cronista da marciapiede e pittore di strada, attentissimo ai dettagli (girava sempre col binocolo), cattivo come pochi, come solo un bastiancontrario piemontese di provincia sa essere. Abbondava in aggettivi, mai uno superfluo. Inventava soprannomi per rendere meglio l’idea, e sempre la rendeva. Polemizzava coi colleghi leccaculo e venduti, benedettamente immune da quell’ipocrisia mafiosa per cui cane non morde cane e giornalista non attacca giornalista. Capiva poco di politica, ma tutto dei politici: li radiografava fino a spolparli e scarnificarli, leggendo dentro di loro nel profondo con i suoi aguzzi occhi azzurri. E scriveva da dio, aveva sempre scritto da dio. Fin da uno dei suoi primi reportage per La Stampa da Longarone, il paese sepolto nel 1963 dalla frana del Vajont. Attaccava così: “Scrivo da un paese che non esiste più”. 


L’avevo conosciuto nella primavera del 1997 nella sede dell’Espresso, in via Po a Roma. Mi aveva chiamato una segretaria del settimanale: “Posso passarle il condirettore Pansa?”. Al mio sì, sobbalzai per la prima volta al telefono per l’esclamazione militaresca, stentorea, cavernosa con cui lui iniziava tutte le conversazioni a distanza: “Pansa!”. Era in viva voce insieme al direttore Claudio Rinaldi: i due avevano letto della mia strana partecipazione al raduno fiorentino degli pseudogarantisti berlusconiani. 

E volevano sapere com’era andata. Giuliano Ferrara aveva appena fondato Il Foglio e, per arraffare i miliardi (c’erano ancora le lire) pubblici, s’era inventato una fantomatica “Convenzione per la Giustizia” fra un senatore di destra e un deputato di sinistra: il forzista Marcello Pera e il “verde” ex lottatore continuo Marco Boato. Siccome tutti sapevano che era una finzione, l’allegra brigata organizzò un convegno a Firenze, finanziato da Denis Verdini, che infatti la sera ospitò tutti i relatori a un banchetto sardanapalesco nella sua villa sulla collina di Fiesole. Problema: i relatori (berlusconiani di destra, di centro e di sinistra) erano tutti d’accordo e avevano bisogno di una stecca nel coro. Chiesero a Paolo Flores d’Arcais, che mandò me. Parlai per mezz’ora dicendo tutto quel che pensavo di loro, nel gelo rabbioso dell’uditorio: qualcuno tratteneva a stento le mani e si vedeva che mi avrebbe volentieri strangolato. Pansa e Rinaldi volevano che raccontassi loro com’era andata e mi invitarono in redazione per avere tutti i particolari. Claudio, già piegato dalla sclerosi, era sdraiato sul suo divano, mentre Giampaolo passeggiava su e giù per l’ufficio. Il mio racconto della tragicomica zingarata li divertì e mi chiesero di scriverlo per l’Espresso, ovviamente sotto pseudonimo perché dovevo parlare di me in terza persona. Ci inventammo “Anonimo Fiorentino” e per anni Ferrara tempestò Rinaldi per sapere chi fosse la spia, invano. Mi presentarono i due vicedirettori, Antonio Padellaro e Bruno Manfellotto. E cominciai a collaborare con l’Espresso e a frequentare quei due meravigliosi rompicoglioni. Ogni volta che passavo da Via Po, Pansa mi spingeva nel suo ufficio per spettegolare di questo e quello, annotando il poco che non sapeva su foglietti che poi infilava nelle cartelline del suo archivio, tutto cartaceo, molto simile al mio, ma molto più fornito perché aveva 30 anni di vantaggio. Naturalmente litigammo infinite volte: era impossibile non litigare con lui, anche perché cambiava continuamente idea. O forse cambiava semplicemente umore (il che, secondo me, spiega il suo accanimento sui delitti partigiani: la sinistra li negava e lo attaccava, lui esagerava all’opposto, per tigna). Quando passò a Libero e io all’Unità e poi al Fatto, ci sentivamo poco. Ma poi ricominciò a chiamarmi quando migrò alla Verità. All’inizio ci si divertiva molto, poi cominciò a lamentarsi. Ogni tanto, dopo il rituale “Pansa!”, buttava lì che, anche se andavamo d’accordo su poche cose, il suo giornale preferito era il Fatto: “Siete il primo quotidiano che leggo, so che non avete padroni né pregiudizi, quindi siete gli unici che non censurano nessuno”. Due volte ruppe con Belpietro e mi propose di portare il Bestiario sulle nostre pagine. E due volte accettai con gioia. “L’hai fatto felice, l’ho rivisto entusiasta”, mi scrisse l’ultima volta la sua compagna Adele Grisendi. Arrivavamo sempre a un passo dalla firma del contratto, poi lui trovava un pretesto per far saltare tutto. Forse fu meglio così, magari avremmo litigato dopo un paio di giorni. Mi mancherà, Pansa. Anzi, Pansa!

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