Una delle poche certezze a disposizione dell'uomo è senza alcun dubbio quella del sentirsi in colpa, o di dare una colpa. Lo scriveva Kafka, e sul punto avrebbe potuto disquisire per ore con Freud.
Gli schieramenti sempre due: da una parte coloro pronti a puntare il dito, dall'altra quelli che del senso di colpa ne hanno fatto un mantra.
I primi smaniosi del sentirsi padroni assoluti di qualsivoglia verità, i secondi, per conseguenza, genuflessi alla realtà dei primi. Entrambi, però, sempre pronti ad evitare la più logica delle ipotesi: tutto accade, senza colpe o colpevoli.
Invece la mania di dover addebitare, o del doversi addebitare un ruolo rispetto a ciò che inevitabilmente la vita vuole che succeda diventa più forte di quel che dovrebbe suggerire il ragionamento.
Ma d'altronde cosa c'è di più sbrigativo nel trovare una colpa o nel darsela.
La storia dell'uomo, per definizione, ha sempre voluto dare un senso all'ignoto, con l'illusione di poterlo gestire.
Il punto è un altro.
Quando si mette in crisi, a nudo, l'onnipotenza dell'uomo, la sua presunta invulnerabilità, e con essa l'orgoglio, viene a manifestarsi l'amarissima verità del nostro essere costantemente a rischio, equilibristi senza rete, la cui sopravvivenza è spesso legata al non volere accettare gli accadimenti della vita stessa.
E invece di imparare la lezione inizia quel subdolo, masochistico e ripugnante giochino del "dimmi di chi è la colpa".
Per venire a capo di chi ha sbagliato, chi ha deragliato, chi ha voluto questo e chi quello.
Chi il buono e chi il cattivo, casellario per chiudere nel più breve tempo possibile la faccenda.
E lasciare inevitabilmente tutto come prima.
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