di Massimo Poggini
Al tramonto Los Angeles sembra più bella. Mentre gli ultimi raggi di sole lasciano il posto alle luci dei neon, risaliamo La Brea Avenue a bordo di un Suv. È un po’ come se stessimo girando una scena di Fast and furious: Vasco siede sbracato di fianco all’autista, accende una sigaretta dietro l’altra e non indossa le cinture di sicurezza.
Da sempre ha qualche difficoltà a convivere con le regole. O meglio, sogna un mondo che non ha bisogno di regole perché è già “perfetto”. Ecco il punto: i sogni come antidoto alla realtà. È il tema dominante de Il mondo che vorrei, il suo nuovo album.
Quando il crepuscolo avvolge la città, decide che è giunto il momento di farmi ascoltare le nuove canzoni. Già la prima strofa è un uppercut:
“Ed è proprio quello che non si potrebbe che vorrei / Ed è sempre quello che non si farebbe che farei”.
Mentre svoltiamo su Hollywood Boulevard, Vasco inizia a cantare. Essere lì ad ascoltarlo è un grande privilegio: anche se siamo soltanto in sei, lo fa come se davanti avesse un pubblico vero. “Adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni / che cosa me ne faccio della realtà... / Adesso che non c’è più Topo Gigio / che cosa me ne frega della Svizzera”. Questa discrasia tra sogno e realtà pare ossessionarlo e, infatti, a un certo punto butta là un pensiero che nasce da una lunga meditazione: «È la realtà che mi ha un po’ deluso, non la vita». Il giorno dopo gli chiedo di approfondire l’argomento, e lui non si tira indietro: «In effetti alcuni giorni è più bello sognare che vivere. La realtà vista senza il filtro dell’immaginazione spesso è davvero brutta. Io sono stato molto fortunato. Ho avuto una vita straordinaria, spericolata nel senso più autentico del termine. Tutto è successo per gradi e tutto è accaduto al momento giusto. Questo mi ha permesso sia di godermi l’attimo sia di arrivare preparato alla fase successiva».
A venire in America per incidere i dischi ha iniziato nel 1992 con Gli spari sopra. Dietro questa scelta ci sono motivi professionali (ad esempio una selezione più vasta di studi di registrazione e di musicisti) ma anche umani: in Italia vive come un recluso, qui fa jogging, va al supermercato e alle cinque prende il tè. La riprova di quanto sia importante per lui questa full immersion nella “normalità” l’abbiamo una sera davanti a Katsuya, il ristorante più cool del momento: tra i commensali ci sono Johnny Depp, Macy Gray, il cantante dei Black Crowes e altre star hollywoodiane. L’ingresso è presidiato da un nugolo di paparazzi. Quando usciamo non se lo filano proprio. E lui, divertito, rimane per qualche minuto lì in disparte a godersi la scena dei fotografi che accecano coi flash una vecchietta che nessuno sa dirci chi sia. «Mi piace venire a Los Angeles uno o due mesi all’anno. Mi rigenera. Il successo e l’affetto della gente mi gratificano moltissimo, ma la celebrità mi soffoca. Quando vedo attorno a me tutto questo entusiasmo un po’ mi imbarazzo. Poi mi adeguo all’immagine che i fan hanno di me e cerco di essere all’altezza. Ma mi sento sempre un po’ inadeguato».
Sembri uno sicuro di sé, in realtà sei un timido.
«Vero, ho dovuto sforzarmi parecchio. Ho dovuto violentarmi. In passato mi ubriacavo già dal giorno prima per trovare il coraggio di affrontare il pubblico. Poi ho capito che avevo più paura del fantasma della realtà che della realtà stessa. Oggi cerco in tutti i modi di distrarmi e di non pensarci fino a quando salgo sul palco. A quel punto, dopo un primo momento di puro panico, la concentrazione e la musica prendono il sopravvento e non ho più il tempo di pensare. Ho una teoria sulla timidezza. Penso sia una forma di egocentrismo che ti fa bruciare il 70 per cento delle energie per niente. È quasi una malattia. Da ragazzo non volevo entrare al cinema con la luce accesa, un amico mi diceva: “Ma chi pensi di essere, non sei mica al centro dell’universo, la gente ha ben altro a cui pensare”».
Una volta hai detto che a 12 anni eri convinto che il mondo fosse nato con te, non prima. «Quando studiavo storia a scuola non la distinguevo molto dalle favole. Oggi mi piace leggere libri di storia e di filosofia. Aiutano a dare una collocazione più sensata alla propria esistenza. Crescendo si impara».
Hai raccontato anche di aver sofferto molto per amore. Dobbiamo crederci?
«Be’, fino a un certo punto sono stato anch’io un uomo comune. La prima delusione l’ho avuta a sei anni: lei mi lasciò per un villeggiante che arrivava da Bologna. Poi ce ne sono state altre, ma la più scottante è arrivata a vent’anni: quella storia mi annientò, così per parecchio tempo ho preferito avere solo rapporti che non andassero oltre l’atto sessuale».
Da vent’anni, invece, vivi con Laura, madre di uno dei tuoi tre figli. Perché non l’hai mai sposata? «Perché le complicazioni burocratiche mi spaventano. Ma il nostro legame è più sincero così: ogni giorno ci confermiamo il patto che ci unisce. Luca è molto importante nel nostro progetto e considero Laura a tutti gli effetti mia moglie».
Da ragazzino chi erano i tuoi idoli?
«Little Tony e Gianni Morandi. Nei concorsi cantavo Riderà e In ginocchio da te. Per noi italiani Little Tony era l’equivalente di Elvis Presley. Io Presley l’ho scoperto dopo. E ai tempi dell’università a Bologna ho iniziato ad ascoltare i Genesis, i Pink Floyd, i King Crimson. Gli unici che conoscevo già da ragazzino erano i Rolling Stones, perché un mio amico aveva i loro dischi».
Rimpiangi quei tempi?
«No, ma li ricordo con grande affetto. Ero povero, avevo un vestito per la domenica, uno per gli altri giorni e un solo paio di scarpe. Stavamo bene, anche se avevamo poco. E questo forse non è un male».
Comunque, con o senza scarpe, direi che di strada ne hai fatta.
«Io sono l’incarnazione della favola di Cenerentola. Fino a 20 anni non sognavo i lussi, perché non sapevo nemmeno che esistessero. Poi ha iniziato a piovere sul bagnato. Il bello è che tutto quel che ho l’ho ottenuto facendo esattamente quello che mi piaceva. Ogni giorno ringrazio il cielo e la chitarra. Però la mia vita interiore non è cambiata affatto, direi che la malinconia è la mia condizione naturale e molto spesso cado in profonde depressioni».
Una volta ti rivolgevi a una “generazione di sconvolti che non ha più santi né eroi”. E oggi?
«In realtà molte canzoni le scrivo rivolgendomi a me stesso, come se fossi l’ascoltatore immaginario perfetto. Racconto cose che non direi nemmeno alla mia donna. E a volte è proprio grazie alle canzoni che capisco la realtà che sto vivendo. Quel brano in particolare parla di una fase che prima o poi tutti i ragazzi vivono: la ribellione verso il mondo degli adulti».
È per questo che a un certo punto dal vivo lo hai trasformato in “siete solo voi”?
«È un gioco che faccio dal palco: mi trasformo nel fratello maggiore o nel genitore e grido loro “siete solo voi!”, anche perché io ormai… Mi rendo conto di essere cresciuto, di essere andato avanti. Adesso non vedo più tutto bianco o nero, ho scoperto che esistono le sfumature».
Quando hai fatto questa scoperta?
«Abbastanza tardi, forse perché per parecchio tempo ho vissuto ai margini della realtà. Prima andavo avanti a testa bassa, mi interessava soltanto scrivere canzoni e cantarle su un palco. Avevo sempre la chitarra con me. A un certo punto mi sono reso conto che il successo era arrivato ma mi mancava qualcosa di reale, direi di fisico. Ero in crisi marcia, al risveglio ero sempre depresso, scoppiavo a piangere senza sapere perché. Così ho iniziato a permettermi, diciamo così, dei lussi per una rockstar: ad esempio costruire una famiglia. Adesso, se piango, almeno so perché...» (ride).
Un tradimento?
«Macché! La vera trasgressione è fare una famiglia e mettere al mondo dei figli. Ci vuole impegno e coraggio, soprattutto per le donne. Non è affatto facile ma dà “un senso” a tutto. In fin dei conti siamo in questo mondo per fare dei figli. Quando ne hai uno, improvvisamente non sei più tu il figlio ma diventi padre, l’ottica cambia completamente e cominci a vedere le cose in modo diverso. Ti rendi conto dei problemi degli altri, capisci che non sei al centro dell’universo. L’obiettivo principale diventa garantire a quell’essere che hai generato almeno vent’anni di serenità».
Cosa insegni ai tuoi figli?
«Cerco di insegnargli a non fare gli errori che ho fatto io. Ovvio che le parole servono fino a un certo punto, ma possono limitare i danni. Ad esempio spiego che quando si attraversa la strada bisogna fare attenzione alle automobili che passano, che non bisogna infilarsi una forchetta negli occhi. Gli spiego anche che tutte le droghe fanno male, ma alcune sono più dannose di altre: l’eroina ad esempio non bisogna assolutamente nemmeno provarla! È letale, basta una volta o due e non riesci più a uscirne. In cinque o dieci anni sei morto. Con le altre, coca e pasticche, bisogna stare molto attenti. Meglio non prenderle e imparare a divertirsi senza, anche perché prima o poi bisogna farlo per forza. Magari gli dico pure che le canne fanno meno male dell’alcol… però si rischia la galera!».
C’è un errore che ti ha fatto male in modo particolare?
«Tutti gli errori mi hanno fatto male. Ma se non li fai non puoi mica imparare. Comunque rifarei tutto, anche se l’ideale sarebbe imparare senza bisogno di sbagliare. Ma temo che sia impossibile».
Sbaglio se dico che fino a un certo punto hai studiato da rockstar, poi sei diventato un artista? «Può essere. Ma riprendendo il discorso sulle sfumature, vorrei dire che se nella vita reale sono necessarie, nell’espressione artistica non sempre è così. Nella mia esiste solo il bianco o il nero. Uso un linguaggio esagerato perché voglio provocare. Io sono un testimone della vita e dei nostri tempi: ascoltare le mie canzoni non è “pericoloso” ma può aiutare a capire. Vedere che tante persone hanno i miei stessi problemi è stata una scoperta inebriante. In fin dei conti io non faccio altro che esprimere le ansie, le rabbie, le nevrosi della gente normale».
Tra libertà e uguaglianza cosa scegli?
«La libertà, perché se non si è liberi non si può neanche essere uguali. Del resto la prima a far discriminazioni è la natura: chi nasce bello avrà opportunità diverse da chi nasce brutto. Tante leggi della natura non mi piacciono. Perché un pesce grosso deve mangiare quello piccolo? Perché, per sopravvivere, una vita si deve cibare dell’altra? Perché il leone deve mangiare la gazzella? Non sarebbe stato meglio che mangiasse l’erba? E che dire dell’uomo, che per sfamare il suo ego vuole il potere e spesso lo esercita facendo del male agli altri? La furbizia e la disonestà sembrano pagare sempre di più rispetto alla sincerità e all’onestà. Il regno animale di cui facciamo parte è crudele e violento e l’umanità deve fare ancora molta strada per affrancarsene».
Beppe Grillo e altri hanno fatto diventare attuale il tema dell’antipolitica. Ma tu questi argomenti li affrontavi già nel 1996 con Stupendo.
«Quella canzone era un grido disperato di delusione nei confronti di certe persone. Stupendo parla di chi, come noi negli anni Settanta, si era illuso di portare l’immaginazione al potere. Poi molti si sono omologati, si sono accontentati. Oggi sembra un circo. Ci sono un sacco di pagliacci travestiti da politici, c’è troppa gente che parla ma non si assume responsabilità di quello che dice, né paga per le cazzate che fa».
È peggio l’ignoranza o l’intolleranza?
«L’intolleranza nasce dall’ignoranza. Se ti sforzi un po’ per non essere ignorante, capisci anche che devi essere tollerante. Siamo tutti nati su questo pianeta e siamo tutti diversi, quindi la tolleranza è indispensabile. Non è certo una colpa, ma non si può essere orgogliosi di essere ignoranti, anche se c’è addirittura chi ne fa una bandiera o un partito».
Nelle cose che fai conta di più il cuore o il cervello?
«Ci vogliono tutti e due. Anche la realtà di questo universo è sempre una questione di equilibrio tra due fattori opposti: polo positivo e polo negativo, espansione e forza di gravità. L’ho scritto anche in una canzone: è tutto un equilibrio sopra la follia. E io sono sempre in bilico»
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