
Ha vinto un nero nel Paese che ridusse in schiavitù milioni di africani e su questa schiavitù innestò la sua potenza, tanto è bastato a far echeggiare da ogni angolo di mondo la vittoria della democrazia, la vittoria del cambiamento.
Ha vinto un nero che in Europa è stato dipinto come il presidente pacifista, offrendo a buona parte della sinistra del Vecchio Continente la speranza di una sponda su cui poggiarsi.
Ha vinto un nero che ha ridipinto il sogno americano, chiedendo se c’è ancora qualcuno là fuori che continua a dubitare che l’America sia il Paese dove tutto è possibile; che si interroghi ancora sul potere della democrazia degli Stati Uniti, consegnando nelle scelte degli americani la risposta.
Non ha vinto un nero, ha vinto un americano, scelto dagli americani.
Quando si insedierà alla Casa Bianca, il prossimo gennaio, sarà diverso rispetto a quello che è apparso sinora in campagna elettorale, e la “carineria” di Silvio Berlusconi: “Obama abbronzato”, volente o nolente racconterà un’altra verità; Obama non è un nero, è un americano.
L’impatto presidenziale sulla società statunitense sarà imponente, l’unilateralità politica paragonabile alla forza e alla condivisione dell’uso delle armi, nel pieno della tradizione americana.
Le chiacchere a quel punto staranno a zero e l’eroe americano degli antiamericani cesserà di esistere lasciando tramontare da est a ovest e da nord a sud il sole del cambiamento, perché “patriottismo”, “orgoglio” e “individualismo” sono i principi su cui è basata la storia americana, un testamento a cui rimarrà fedele anche Obama.
Nel mondo arabo-islamico si susseguono le interpretazioni: da una parte i governanti iracheni e le forze di opposizione hanno collegato all’elezione di Obama il possibile ritiro dei marines americani, mentre Hamas invita il neo presidente a cambiare la politica estera portata avanti dal suo predecessore nei confronti della questione palestinese, mutando, di fatto, l’alleanza con Israele.
Barack Obama ha espresso nella campagna elettorale il desiderio di trovare, nel dialogo, un avvicinamento con il regime iraniano ma Israele ha manifestato le proprie perplessità, temendo che l’amministrazione Democratica adotti “una linea più morbida” verso Teheran.
Al Qaeda non ha fatto mancare il proprio messaggio, diffuso su internet e firmato da Abu Omar al Bagdad "emiro dello Stato Islamico in Iraq", una associazione di gruppi terroristici guidati dal ramo iracheno di Al Qaeda: "Ritiratevi, ritirate le vostre truppe dai nostri paesi e non entrate più nei nostri affari".
Il governo iraniano ha lanciato un nuovo avvertimento agli Usa, nel quale si ribadisce che non verranno tollerate violazioni dello spazio aereo dalle forze armate americane.
I militanti islamiti pakistani di Islamabad potrebbero far passare l’atomica nelle mani dei Talebani.
Sopra lo scacchiere mediorientale si potrebbe a breve giocare una partita psicologica visto che il fondamentalismo islamico ha iniziato a muovere le proprie pedine verso il neo presidente americano.
Obama entrerà in trattative senza vincoli con Hamas, Hezbollah e Siria, che finiranno male, perché la divergenza con loro è strategica e non sarà risanabile, e senza aver articolato un programma sul confronto ma solo del dialogo non potrà far altro che confermare quello che ha già espresso: essere pronto ad un’azione militare unilaterale.
Per dirlo in soldoni: se il fondamentalismo islamico continuerà a fare la voce grossa, e la farà, verrà bombardato, e per sua sfortuna alla Casa Bianca non ci sarà Bush, alla Casa Bianca, insieme ad Obama, ci sarà anche Rahm Emanuel.
La prima nomina del presidente statunitense non è solamente filoisraeliana perché il suo braccio destro israeliano lo è davvero con tradizioni estremiste nazional-ebraiche.
E se prenderà corpo anche la previsione della nomina al Dipartimento di Stato di John Kerry, un senatore che ha votato a favore della guerra in Iraq, allora il mondo arabo non avrà di che stare tranquillo.
La prima conferenza stampa da neo presidente degli Stati Uniti, insieme al vice Joe Biden e al capo di gabinetto Rahm Emanuel, ha tolto ogni dubbio: “Inaccettabile il fatto che l’Iran si doti di un’arma nucleare”, e ha aggiunto, “il sostegno di Teheran al terrorismo deve terminare”.
La tradizione americana, quella patriottica, orgogliosa e individualista, ha sempre portato avanti, con i rispettivi presidenti, una politica guerrafondaia, dalla Corea passando per il Vietnam fino a quella con l’Iraq, ma c’è ancora una guerra aperta, quella contro Osama Bin Laden e i Talebani in Afghanistan.
All’orizzonte non si vedono soluzioni e tutto il mondo assisterà all’ennesima guerra di un presidente bellicista pronto a difendere gli interessi del proprio Paese.
Ha vinto un nero che in Europa è stato dipinto come il presidente pacifista, offrendo a buona parte della sinistra del Vecchio Continente la speranza di una sponda su cui poggiarsi.
Ha vinto un nero che ha ridipinto il sogno americano, chiedendo se c’è ancora qualcuno là fuori che continua a dubitare che l’America sia il Paese dove tutto è possibile; che si interroghi ancora sul potere della democrazia degli Stati Uniti, consegnando nelle scelte degli americani la risposta.
Non ha vinto un nero, ha vinto un americano, scelto dagli americani.
Quando si insedierà alla Casa Bianca, il prossimo gennaio, sarà diverso rispetto a quello che è apparso sinora in campagna elettorale, e la “carineria” di Silvio Berlusconi: “Obama abbronzato”, volente o nolente racconterà un’altra verità; Obama non è un nero, è un americano.
L’impatto presidenziale sulla società statunitense sarà imponente, l’unilateralità politica paragonabile alla forza e alla condivisione dell’uso delle armi, nel pieno della tradizione americana.
Le chiacchere a quel punto staranno a zero e l’eroe americano degli antiamericani cesserà di esistere lasciando tramontare da est a ovest e da nord a sud il sole del cambiamento, perché “patriottismo”, “orgoglio” e “individualismo” sono i principi su cui è basata la storia americana, un testamento a cui rimarrà fedele anche Obama.
Nel mondo arabo-islamico si susseguono le interpretazioni: da una parte i governanti iracheni e le forze di opposizione hanno collegato all’elezione di Obama il possibile ritiro dei marines americani, mentre Hamas invita il neo presidente a cambiare la politica estera portata avanti dal suo predecessore nei confronti della questione palestinese, mutando, di fatto, l’alleanza con Israele.
Barack Obama ha espresso nella campagna elettorale il desiderio di trovare, nel dialogo, un avvicinamento con il regime iraniano ma Israele ha manifestato le proprie perplessità, temendo che l’amministrazione Democratica adotti “una linea più morbida” verso Teheran.
Al Qaeda non ha fatto mancare il proprio messaggio, diffuso su internet e firmato da Abu Omar al Bagdad "emiro dello Stato Islamico in Iraq", una associazione di gruppi terroristici guidati dal ramo iracheno di Al Qaeda: "Ritiratevi, ritirate le vostre truppe dai nostri paesi e non entrate più nei nostri affari".
Il governo iraniano ha lanciato un nuovo avvertimento agli Usa, nel quale si ribadisce che non verranno tollerate violazioni dello spazio aereo dalle forze armate americane.
I militanti islamiti pakistani di Islamabad potrebbero far passare l’atomica nelle mani dei Talebani.
Sopra lo scacchiere mediorientale si potrebbe a breve giocare una partita psicologica visto che il fondamentalismo islamico ha iniziato a muovere le proprie pedine verso il neo presidente americano.
Obama entrerà in trattative senza vincoli con Hamas, Hezbollah e Siria, che finiranno male, perché la divergenza con loro è strategica e non sarà risanabile, e senza aver articolato un programma sul confronto ma solo del dialogo non potrà far altro che confermare quello che ha già espresso: essere pronto ad un’azione militare unilaterale.
Per dirlo in soldoni: se il fondamentalismo islamico continuerà a fare la voce grossa, e la farà, verrà bombardato, e per sua sfortuna alla Casa Bianca non ci sarà Bush, alla Casa Bianca, insieme ad Obama, ci sarà anche Rahm Emanuel.
La prima nomina del presidente statunitense non è solamente filoisraeliana perché il suo braccio destro israeliano lo è davvero con tradizioni estremiste nazional-ebraiche.
E se prenderà corpo anche la previsione della nomina al Dipartimento di Stato di John Kerry, un senatore che ha votato a favore della guerra in Iraq, allora il mondo arabo non avrà di che stare tranquillo.
La prima conferenza stampa da neo presidente degli Stati Uniti, insieme al vice Joe Biden e al capo di gabinetto Rahm Emanuel, ha tolto ogni dubbio: “Inaccettabile il fatto che l’Iran si doti di un’arma nucleare”, e ha aggiunto, “il sostegno di Teheran al terrorismo deve terminare”.
La tradizione americana, quella patriottica, orgogliosa e individualista, ha sempre portato avanti, con i rispettivi presidenti, una politica guerrafondaia, dalla Corea passando per il Vietnam fino a quella con l’Iraq, ma c’è ancora una guerra aperta, quella contro Osama Bin Laden e i Talebani in Afghanistan.
All’orizzonte non si vedono soluzioni e tutto il mondo assisterà all’ennesima guerra di un presidente bellicista pronto a difendere gli interessi del proprio Paese.
Gli obamiani rimarranno delusi e recintati nel tanto osannato cambiamento, nel loro mondo nuovo, diverso, in quel pianeta migliore che non sarà altro che una terra di illusioni.
di Cirdan
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