Amaro nella spaesata solitudine della sua protesta, il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici. Ieri mattina ha svegliato presto i suoi collaboratori, si è messo alla guida della sua auto, e si è andato a incatenare sotto la sede di Repubblica e dell’Espresso, a Roma. Le colonne storiche dell’informazione militante della sinistra, giornali-partito per natura e vocazione. Accusati dal sindaco di Firenze, esponente di rilievo del Pd e presidente Anci, di infangare onorabilità e dignità dell’amministrazione che Domenici guida. Il sindaco ha querelato. Ma era solo, incatenato davanti al quotidiano fondato da Scalfari. Veltroni non c’era. Io, al posto suo, ci sarei andato di corsa. Perché il giorno prima il segretario del Pd, Veltroni, agli attacchi di Repubblica e dell’Espresso aveva dichiarato piena solidarietà a Domenici e al sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. E se la piena solidarietà ha un senso in politica, essa significa che a giudizio del leader nazionale del Pd le critiche corrosive espresse da Alberto Statera su Repubblica, e da Gianluca Di Feo sull’Espresso, erano da respingere. Dunque, il sindaco di Firenze aveva ragione a protestare. Ma, al dunque, Veltroni non è andato a protestare con Domenici.
Lasciandolo solo, dopo l’intervista al Corriere in cui il sindaco di Firenze annunciava schifato di lasciare la politica alla scadenza ormai prossima del suo mandato, è come se Veltroni abbia dichiarato tutto il suo impotente imbarazzo. La stessa sfuggente impalpabilità di cui era intrisa la lettera aperta che lo stesso Veltroni ha affidato al Corriere di ieri. Lettera nella quale la questione morale che addenta il Pd in mezza Italia sfumava in rituali promesse di rinnovamento e di primarie.
Oltre le parole
C’è bisogno di altro, che di melliflue frasi che non impegnano a nulla. Un presidente Anci del Pd che s’incatena a un palo, sotto i giornali storici della sinistra, ha dell’epocale. Come epocale è la copertina dell’Espresso di venerdì, rispetto alla storia pluridecennale di quel settimanale. “Compagni spa”, recitava. Sommario: «L’ondata di inchieste mostra il potere dei comitati d’affari e rischia di travolgere le giunte rosse. Ora il Pd si trova a fare i conti con gli scandali».
Della concreta vicenda fiorentina, dirò solo che l’intenzione dichiarata da Diego Della Valle di realizzare uno stadio nuovo per farne occasione di attività e sviluppo commerciali, oltre che presidio patrimoniale di garanzia per la società sportiva, è più che sana: magari fosse seguita come esempio. Come la congestione di spazi urbanizzabili nell’area limitrofa a Firenze porta a individuare l’area del Castello non da ora, ma da vent’anni. Senonché l’area appartiene a una “bestia nera” della stampa di sinistra, alla Fondiaria di Salvatore Ligresti. E questo da sempre basta, per accendere le polveri del gruppo Repubblica-Espresso. In Italia, si sa, l’unico rimedio per non beccarsi accuse di corruzione è non bandire una sola gara, pensare solo a parchi e biciclette.
Ma qui in gioco c’è molto di più. Per il Pd e per Veltroni che ne è leader ormai discusso, è in gioco l’intero bilancio del quindicennio che ci separa da Mani Pulite. Di più, a venire al pettine c’è il fondamento stesso di quella “diversità” che Enrico Berlinguer mise alla radice della sua svolta del 1980, e che fu rivendicata e fatta propria da quei “ragazzi di Berlinguer” della Fgci che da allora, in continuità storica assoluta, si sono avvicendati dopo Natta alla guida della trafila nominale Pci-Pds-Ds-Pd.
La “diversità”, la presunzione di una superiore fibra morale dei dirigenti e militanti comunisti e postcomunisti, è stata da allora parola d’ordine in nome della quale la sinistra ha ottenuto il salvacondotto giudiziario ai tempi di Mani Pulite, assistendo allo sbaraccamento dei suoi avversari. Per poi invocarla raddoppiata nei confronti di Silvio Berlusconi. E si è da sempre declinata attraverso una sorta di “quadrato magico”. Primo: allusioni iniziali, campagne politiche poi, contro avversari che volessero realizzare opere pubbliche o valorizzare aree urbane, mettendo nel mirino imprenditori privati accusati di essere “amici degli amici” e beneficati da una politica corrotta e corruttrice. Secondo: indagini dei pm su tale base, con dovizioso ricorso a intercettazioni telefoniche. Terzo: allungamento a stampa fiancheggiatrice delle intercettazioni medesime, spesso interpolate in maniera tale da far apparire gli intercettati come oscuri complici di commistioni improprie, se non di veri e propri disegni criminosi. Infine, quarto: richieste di dimissioni, sotto il montare dello sdegno dell’opinione pubblica.
Guai al quadrato
Il problema, per il Pd, è che ormai il quadrato magico si applica alle sue giunte e ai suoi sindaci, presidenti di Regione e Province. Ammettere che si tratta di una macchina infernale - cioè incatenarsi insieme a Domenici - significa riconoscere che tutte le volte che è stata fatta scattare in passato, per gli avversari della sinistra, essa era, o poteva essere, altrettanto perversa. Ed è questo, che Veltroni ieri non ha avuto il fegato di dire. Non si fanno dimettere i propri indagati. Né li si difende. Tutto scivola a ulteriori sputtanamenti. Pacatamente, serenamente, come direbbero gli imitatori di Veltroni.
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