Conosciamo le notizie in ogni particolare. Le ultime riguardano l’annunciata battaglia di terra: i soldati israeliani agiscono nella striscia di Gaza e vanno di casa in casa per snidare i capi del terrorismo Hamas. Ne hanno già uccisi un numero elevato. E le operazioni di “pulizia” continuano nonostante mezzo mondo invochi la tregua. Un coro di implorazioni e di critiche. Pochi tengono conto che la tregua c’era ed è stata rotta dai palestinesi nel modo risaputo: missili su Israele destinati a colpire la popolazione. Il governo di Gerusalemme ha sopportato per un po’. Poi, vista l’insistenza delle aggressioni, ha reagito: prima con attacchi aerei mirati a distruggere le postazioni terroristiche di maggior rilevanza, quindi irrompendo con mezzi corazzati nella striscia. Cosa poteva fare di diverso, seguitare a farsi bombardare porgendo l’altra guancia e confidando in una trattativa diplomatica? Trattare con chi? Hamas voleva e vuole la guerra, altrimenti non avrebbe lanciato missili a ripetizione ma inviato un ambasciatore o almeno un postino. E allora guerra sia e vinca il più forte, come sempre accade quando si rinuncia a parlare e si mette mano alla fondina della pistola. Una terza via non era praticabile perché non esisteva. Non esiste una terza via per due litiganti: si va avanti con le armi finché uno, per non morire, sventola bandiera bianca. Questo non è cinismo bensì realismo. I discorsi retorici (e contraddittori) di vari Paesi europei e le accorate preghiere del Papa non servono a placare gli invasati che puntano su Israele né gli israeliani che, per istinto di sopravvivenza, si difendono e cercano di annientare il nemico.
In Italia (e non solo) chi biasima le provocazioni di Hamas quasi sempre tiene a precisare che la controffensiva di Gerusalemme è tuttavia sproporzionata per eccesso all’offesa ricevuta. Facile parlare così standosene seduti al calduccio di casa propria e dimenticando che i cittadini dello Stato ebraico, da quando è stato fondato (1948), sono periodicamente vittime di attentati e sono minacciati - come risulta scritto nello Statuto di Hamas - di sterminio. È pur vero che i palestinesi non hanno Patria. Ma se non ce l’hanno un perché c’è. La risoluzione dell’Onu che autorizzava la costituzione di Israele in Stato, imponeva in pari tempo la costituzione in Stato della Palestina. Peccato che tale risoluzione sia stata applicata soltanto nella prima parte. Lo Stato di Palestina non è mai nato e non per volontà ebraica; fu la Lega araba a impedirne la formazione. Si dirà, acqua passata. Sbagliato, perché la materia del contenzioso, almeno ufficialmente, è rimasta la stessa.
Immutata la cantilena antisemita: i profughi hanno diritto ad avere un Paese proprio. Giusto. Nessuno ne dubita. Ma ogni qualvolta si è tentato di completare, sia pure in ritardo, il piano disegnato dall’Onu, è stato un fallimento e non a causa di Israele. Questo sia chiaro.
L’ultimo atto dei laboriosi e inutili negoziati si svolse a Camp David nel 2000, presenti Clinton, Barak e Arafat. Giorni e giorni di discussioni. Poi fu annunciata la lieta novella: accordo raggiunto. Mancava soltanto la firma, una formalità. Esultanza internazionale. Titoloni che sprizzavano gioia sui giornali. Ma sul più bello, al momento di compiere il rito della sigla, Arafat - il più ignobile dei premi Nobel, ospite di capi di Stato e papi - si tirò indietro. La notte avanti ci aveva ripensato. Perché se fosse sorto lo Stato di Palestina sarebbe venuto meno il pretesto per combattere contro Israele.
Non è una interpretazione gratuita della cronaca (la storia è altra cosa) ma una semplice costatazione suffragata anche dagli eventi in corso. È arcinoto che sia l’Iran a finanziare Hamas, addirittura fornendo missili (e armamenti d’altro tipo) ai terroristi. Ed è arcinoto che l’Iran si faccia vanto di un progetto assai ambizioso: cancellare Israele dalla carta geografica. Per realizzare il quale d’altronde gli iraniani sono impegnati a produrre la bomba atomica.
Nonostante ciò, secondo le anime progressiste (e quelle fasciste) il governo di Gerusalemme dovrebbe stare fermo e guardare a bocca aperta gli sviluppi della situazione. Senza muovere un dito per salvare la propria gente.
Certe pretese hanno il marchio inconfondibile dell’antisemitismo, tant’è che vengono sottolineate da gesti simbolici in ogni manifestazione pubblica: bandiere israeliane date alle fiamme (è accaduto alcuni giorni fa in Italia) e accostamento della svastica alla stella di David. Gli ebrei devono morire in massa, preferibilmente in silenzio per non disturbare le conversazioni dei comunisti, dei rifondaroli, dei veltroniani e similari. La posizione politica della sinistra è questa. Con qualche lodevole e rara eccezione: per esempio Furio Colombo. Che però nel Pd viene ascoltato come se parlasse Pinco. Noi la pensiamo nella stessa maniera di Antonio Martino: ogni attacco a Israele è un attacco all’Occidente.
Chi non l’ha capito lo capirà quando gli arriverà in testa un missile.
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