Chiunque abbia, se non altro per ragioni anagrafiche, un passato, è portato a leggere i conflitti di oggi alla luce degli schemi mentali di ieri. Per decenni il conflitto israeliano-palestinese venne interpretato in Occidente con gli schemi della guerra fredda. A lungo, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra l'Urss e Israele, quel conflitto fu parte, pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico. Per tutti coloro che in Europa occidentale simpatizzavano per l'Urss e per «la lotta dei comunisti a favore dell'emancipazione del Terzo Mondo», Israele era un avamposto dell'imperialismo americano.
Contavano anche le peculiarità del conflitto e i loro riflessi in Europa. Dopo il '73, con la crescita del prezzo del petrolio e l'uso politico dell'energia da parte dei Paesi produttori, trattare con i guanti governi e opinione pubblica arabi diventò vitale per un'Europa assetata di energia: la causa palestinese acquistò pertanto sempre maggiore popolarità fra noi mentre le ragioni di Israele di fronte al «rifiuto arabo» persero progressivamente terreno nella considerazione delle opinioni pubbliche europee (anche fra molti di coloro che erano schierati contro l'Urss su altri fronti). Se a ciò si sommano le memorie antiche, le influenze, più o meno sotterranee, del pregiudizio cristiano antigiudaico, si comprende molto degli atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese, per lo meno dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano- palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere. In primo luogo, l'irruzione della religione, e più precisamente dell'islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro fra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d'ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l'Occidente corrotto e materialista, l'entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano). In queste condizioni, pensare alle soluzioni del conflitto nei modi che erano ancora plausibili ai tempi degli accordi di Oslo non è più possibile. «Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici.Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l'intera galassia dell'estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l'egemonia fra l'islam sciita guidato dall'Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all'Iran). E non è un caso, come mostra l'assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l'irruzione dell'islam politico e il ruolo dell'Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto israeliano-palestinese.
Ma la rimozione incombe. Sorprende, ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. È come se per D'Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo. A causa del carattere politico-religioso di Hamas e della volontà di potenza iraniana. Segni di rimozione appaiono anche le reazioni di certi laici nonché di esponenti di spicco della Chiesa cattolica di fronte alla preghiera di massa organizzata dalla fratellanza musulmana contro il nemico sionista (al termine di raduni in cui si bruciano le bandiere di Israele), di fronte cioè a manifestazioni che vedono impegnati i sostenitori di Hamas presenti all'interno dell'islam italiano ed europeo. Se la paura del fondamentalismo islamico può spiegare le reazioni flebili e sommesse di molti di quei laici, il caso della Chiesa cattolica, come ha mostrato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è più complesso. La Chiesa sembra oggi divisa fra la sua antica diffidenza (quando non si tratti di aperta ostilità: vedi le parole del Cardinal Martino su Gaza) per Israele, e la presa d'atto, ben chiara negli scritti e nei discorsi di Papa Benedetto XVI, del fatto che la violenza del fanatismo religioso sia oggi la minaccia più grave per la civile convivenza. E anche per le prospettive di pace in Palestina.
di Angelo Panebianco
da il legno storto
Contavano anche le peculiarità del conflitto e i loro riflessi in Europa. Dopo il '73, con la crescita del prezzo del petrolio e l'uso politico dell'energia da parte dei Paesi produttori, trattare con i guanti governi e opinione pubblica arabi diventò vitale per un'Europa assetata di energia: la causa palestinese acquistò pertanto sempre maggiore popolarità fra noi mentre le ragioni di Israele di fronte al «rifiuto arabo» persero progressivamente terreno nella considerazione delle opinioni pubbliche europee (anche fra molti di coloro che erano schierati contro l'Urss su altri fronti). Se a ciò si sommano le memorie antiche, le influenze, più o meno sotterranee, del pregiudizio cristiano antigiudaico, si comprende molto degli atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese, per lo meno dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano- palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere. In primo luogo, l'irruzione della religione, e più precisamente dell'islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro fra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d'ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l'Occidente corrotto e materialista, l'entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano). In queste condizioni, pensare alle soluzioni del conflitto nei modi che erano ancora plausibili ai tempi degli accordi di Oslo non è più possibile. «Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici.Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l'intera galassia dell'estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l'egemonia fra l'islam sciita guidato dall'Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all'Iran). E non è un caso, come mostra l'assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l'irruzione dell'islam politico e il ruolo dell'Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto israeliano-palestinese.
Ma la rimozione incombe. Sorprende, ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. È come se per D'Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo. A causa del carattere politico-religioso di Hamas e della volontà di potenza iraniana. Segni di rimozione appaiono anche le reazioni di certi laici nonché di esponenti di spicco della Chiesa cattolica di fronte alla preghiera di massa organizzata dalla fratellanza musulmana contro il nemico sionista (al termine di raduni in cui si bruciano le bandiere di Israele), di fronte cioè a manifestazioni che vedono impegnati i sostenitori di Hamas presenti all'interno dell'islam italiano ed europeo. Se la paura del fondamentalismo islamico può spiegare le reazioni flebili e sommesse di molti di quei laici, il caso della Chiesa cattolica, come ha mostrato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è più complesso. La Chiesa sembra oggi divisa fra la sua antica diffidenza (quando non si tratti di aperta ostilità: vedi le parole del Cardinal Martino su Gaza) per Israele, e la presa d'atto, ben chiara negli scritti e nei discorsi di Papa Benedetto XVI, del fatto che la violenza del fanatismo religioso sia oggi la minaccia più grave per la civile convivenza. E anche per le prospettive di pace in Palestina.
di Angelo Panebianco
da il legno storto
Nessun commento:
Posta un commento