Basta, ha detto Angela Merkel, vediamoci di meno e lavoriamo di più. Altri, commentando, hanno sostenuto che il G8 è morto. Tutti gli esclusi concordano. Dubito che il dilemma tolga il sonno ai cittadini del mondo, ma per farsi un’idea, sull’utilità di questi vertici, occorre considerarli in una prospettiva più ampia. I singoli problemi che vengono discussi, attorno a quel tavolo, sia quando la composizione è ristretta che quando la si allarga fino ad una quarantina di partecipanti, sono in gran parte predigeriti e le conclusioni fissate in anticipo.
Non potrebbe essere diversamente, considerata la quantità e la delicatezza delle questioni affrontate, oltre alla caratura ed al numero di coloro che prendono la parola. Insomma, che ci voglia meno tempo a stabilire come affrontare la crisi economica rispetto a quello necessario per impiantare un’antenna condominiale, suona paradossale anche alle orecchie di chi non fosse aduso alla diplomazia. Gli accordi finali, del resto, risentono delle lunghe e laboriose preparazioni, nel corso delle quali si cerca di far convivere esigenze ed idee opposte. Sul clima, ad esempio, s’è detto che l’accordo ha una portata “storica”.
Qualificazione che si presta a considerazioni ironiche: fissato il riferimento climatico base al 1880, si stabilisce che la temperatura non deve artificialmente salire per più di due gradi, ma fin qui sarebbe salita di soli 0,8 gradi, e ciò significa che la si può ancora arroventare per più di quanto fin qui fatto. “Storico”, pertanto, è forse esagerato. Ma è, pur sempre, il migliore accordo possibile, perché i Paesi in via di sviluppo, Cina in testa, se la ridono all’idea che noi si voglia imporre loro quel che nessuno ha imposto a noi nel corso del nostro processo di industrializzazione e gli stessi Stati Uniti, fino a L’Aquila, non volevano sentirne parlare.
Ed è sommamente ridicolo che l’Onu protesti, parlando di un presunto fallimento, giacché quando il tema è stato affidato alle cure burocratiche del palazzo di vetro (ben riscaldato d’inverno e ben raffreddato d’estate, a tutto detrimento del clima circostante) non s’è ottenuto neanche questo.
La vera utilità del G8, a ben vedere, risiede nella possibilità di intessere rapporti personali, bi e multilaterali. Il che vale sia per i leaders, che per i rispettivi staff. I più bravi non sono tanto quelli che fanno l’intervento più rotondo e ficcante, visto che la platea non è incline né all’emozione né alla commozione, i più bravi sono quelli che riescono ad aumentare la confidenza personale e la possibilità, fin dal giorno successivo, di alzare il telefono e chiamare per risolvere problemi particolari, di minore portata globale, ma di maggiore interesse nazionale. Da questo punto di vista la prova italiana è migliore che nel passato, anche perché favorita da una sempre più globale e marcata (benché non necessariamente positiva) personalizzazione. Per molti anni la nostra diplomazia governativa è stata incarnata da uomini, pur di grande valore, incapaci di intessere rapporti altro che con i propri elettori.
Kissinger scrisse chiaramente che Aldo Moro non riusciva neanche a capirlo, e la responsabilità non era dell’interprete. Oggi è molto cambiata l’idea stessa della politica e delle relazioni internazionali. Quel che sembrò straordinario nell’intesa umana, creata durante una passeggiata, lontano dalle spie, fra Reagan e Gorbaciov, è, oggi, la norma. Il che, naturalmente, non cancella affatto il ruvido confronto fra interessi ed idee diverse, ma consente di valorizzare più velocemente i punti di contatto. Si potrebbe dire, con tutto il rispetto, che il G8 sta alla politica internazionale come il club del golf sta al mondo degli affari: sono noiose le mazze, le buche e le palline, ma la sera, davanti al caminetto, con un bicchiere in mano, il fatturato può crescere assai più che grazie ai pagati e talora inutili consulenti. Il G8 de L’Aquila è riuscito bene per quel che doveva e poteva (con la dolorosa eccezione del capitolo iraniano). La consuetudine non è morta affatto, ma per continuare ad essere utile ha bisogno di allargarsi.
di Davide Giacalone
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