Quindi nella fenomenologia di Vasco entra un nuovo capitolo: il ritorno. Dopo tredici anni torna a cantare nei palasport, dopo quasi trent’anni torna a suonare la chitarra sul palco e qui al Palabam di Mantova è una festa, letteralmente. Fuori, prima del suo arrivo, c’era la solita coda, cinquemila ragazzi (e non solo), la metà appartenenti al Blasco Fan Club, ciascuno in attesa del proprio Vasco perché questo è il segreto: ciascuno viene al concerto aspettando il proprio idolo, quello a sua immagine e somiglianza, e non necessariamente è lo stesso. Qualcuno (Edmondo Berselli) ha scritto che Vasco è «un tacchinone» che si aggira sul palco caracollando. Qualcun altro (Andrea Scanzi) ha detto che «ogni estate pubblica singoli – fotocopia in cui ripete le stesse cose». Altri sono inutili notai della sua salute, sulla quale Vasco ieri ha rassicurato: «Le analisi del sangue sono regolari. Il fegato non è spappolato, anzi i valori sono quelli di un bambino». Ma la maggioranza però se ne frega di tutte queste disquisizioni a posteriori: Vasco per loro è quello che ieri sera, nella data zero del suo European Tour, è salito in scena e ha rovesciato più di due ore di canzoni come se niente fosse, abbracciando la sua gente e parlando la sua lingua. Punto. Lui in giubbotto nero di pelle, jeans, cappellino, grinta mai vista. In effetti è «Un gran bel film» come il titolo della canzone d’apertura, presa dall’album «Nessun pericolo per te» e riproposta come si fa nei club: senza effetti speciali, solo rock e basta con Vasco che sta lì, a mezzo metro dalla prima fila, e non lontanissimo come accade negli stadi, e sente l’alito della folla che fino a poco prima era lì a cantare «alè, alè Vasco» come se fosse una partita di Champions. Il palco è semplice, giusto lo spazio per basso chitarra e batteria, con quattro cubi scenografici pieni di luci che si sporgono sulla platea e migliaia di piccoli schermi a forma di palla. Roba così, altro che la magniloquenza degli show nei megastadi. Sarà per questo che tutto il concerto è un andirivieni nella discografia di Vasco, quella di un cantante che ha colorato gli ultimi trent’anni della musica italiana a modo suo, cioè rimanendo da solo, appartato. C’è Vasco, con i suoi limiti, e ci sono gli altri, con i loro: ma difficile mescolarli. Forse mai come in questa tournée (che debutta martedì prossimo a Pesaro e si fermerà al MediolanumForum di Assago a febbraio), Vasco si è messo in gioco e vada come vada. Pochi classici, il più bello è Delusa, e molte rarità come «Anima fragile» preso di peso da «Colpa d’Alfredo» del 1980, o «Deviazioni» da Bollicine del 1983, quando Vasco Rossi era l’enfant prodige del rock italiano, perso tra eccessi e romanticismi, perseguitato dai giornalisti (memorabile il Nantas Salvataggio al Festival di Sanremo) e lentamente adorato dai suoi fan che stasera sono qui al Palabam di Mantova arrivando da tutta Italia. A loro Vasco dedica una «Angeli» di inconsueta intensità, anche perché lui la spiega, ci ragiona sopra insieme con il pubblico, spiega che gli angeli sono in cielo ma qui siamo soli e ce la dobbiamo cavare con le nostre forze. E così fa lui dopo aver snocciolato «Sono ancora in coma», canzone vecchissima, o «Ad ogni costo» che è nuova, uscita solo sul web e guai a voi se vi stupite: la musica è quella di Creep dei Radiohead ma le parole sono le sue, adattate alla metrica ma sue (e Thom Yorke ha dato il suo imprimatur). Perciò, nel debutto di quello che sarà un tour esaurito in quasi tutta Europa (persino all’Hammersmith Apollo, tempio del rock di Londra dove hanno suonato mostri come Deep Purple e Ozzy Osbourne), Vasco si è mostrato per quello che è: in un’altra fase della sua storia. Lui dice, civettuolo: «Sto vivendo un momento di straordinaria creatività». Ma al pubblico interessa fino a un certo punto: lui ormai è una maschera italiana che durante «Sally» prende la chitarra acustica e inizia a strimpellare placido, prima che la band lo raggiunga e chiuda lo show con Albachiara, come tutti si attendono e come in fondo è giusto che sia.
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