..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

giovedì 15 aprile 2010

LE MANI NERE / 7

In the End
L'elegante porta si aprì lentamente, ma, al di là di questa, il Presidente non trovò quell'ufficio con poltrona, scrivania e parete dei trofei come ogni mattina da anni ed anni.
Tanto la vista di quella porta gli aveva sollevato lo spirito, ritenendola la via d'uscita dal mondo dell'incubo verso quello della realtà, quanto, adesso, la scoperta di ciò che lo attendeva oltre la porta lo riempì nuovamente di angoscia.
Infatti, al posto del consueto ufficio, vi era quello che apparentemente doveva essere un Tribunale di quella dimensione dell'Incubo. La grande stanza sembrava uscita dalla magica matita di Escher, con simmetrie e proporzioni non appartenenti a questo mondo.
Nei banchi, allineati davanti a quello che sembrava l'immenso scranno di un Giudice, aveva preso posto un'immensa folla che il Presidente non riuscì a quantificare con un'occhiata. E comunque, se anche avesse potuto, non gli sarebbe minimamente importato di farlo. Già, perchè l'unica cosa che lo colpiva era l'aspetto di queste persone.
Una moltitudine di adulti e bambini, qualcuno vestito elegantemente, qualcuno con abiti più informali, ma tutti accomunati da un inquietante particolare.
Nel mezzo del petto, all'altezza del cuore, tutti avevano una sorta di malformazione, di mutilazione. Una sorta di “foro” nella gabbia toracica nel quale le camicie o le maglie sembravano penetrare. E sugli indumenti, proprio in quel punto, una grossa macchia nera.
La stoffa, in quel punto, era stropicciata per colpa della cavità sottostante, ma nonostante ciò il Presidente riconobbe subito i contorni di quelle macchie nere.
Era una mano nera, come l'impronta di qualcuno che, attraverso i vestiti, avesse potuto strappare il cuore dal petto di quelle persone, lasciando solo una macabra cavità in mezzo al torace.
Mentre era ancora immerso in questi pensieri, la Corte fece il suo ingresso in aula.
Alla prima occhiata si accorse che anche il Giudice aveva quell'inquietante “mutilazione”. E sullo sparato in sangallo bianco campeggiava, come per tutti gli altri, l'infame macchia nera.
E, dietro il Giudice, entrò quella che doveva essere il Collegio Giudicante; un gruppo di una ventina di bambini, apparentemente di varia età, che prese posto sul lato destro dell'aula, in appositi banchi.
Inutile dire che anche loro erano tutti orrendamente “segnati”.
Pensò a quante volte si era trovato -o avrebbero voluto vederlo- in situazioni simili. Tutte le volte ne era sempre uscito vincitore, grazie a funzionari “troppo impegnati” per aprire una pratica su faccende poco chiare, grazie a testimoni che improvvisamente perdevano la memoria, grazie a giudici “clementi” con chi era comunque un esempio di moralità...
Già, ma qui non era nei “suoi” tribunali. E qui, pensava, non ci sarebbe stato un “vizio di forma” a far cadere il processo all'ultimo momento, o una giuria compiacente pronta ad assolverlo per “insufficienza di prove”.
Cercò di incrociare gli occhi del Giudice, forse in gesto di sfida, forse ad invocare clemenza.
Ma gli occhi del Giudice gli apparvero strani; anche se, come in quel momento, erano fissi su di lui, erano... erano... l'aggettivo che gli venne per primo in mente era “spenti”.
Già, spenti come gli occhi di un pupazzo senza più anima.
Pupazzo che, però, stava iniziando a leggere la sentenza del Processo.
La donna in nero era sempre a fianco del Presidente, ma non gli reggeva più la mano. In quel momento lui si voltò a guardarla, e gli apparve come l'unico essere dotato di una qualche “vita” oltre a lui in quell'aula aliena.
Si era accorto, infatti che anche gli tutti altri, fossero essi spettatori, guardie o giornalisti, avevano gli stessi occhi del Giudice.
Spenti.
Morti.
Il Giudice intanto procedeva nella sua lettura: ascoltare la sua voce atona che recitava l'elenco delle accuse era come ripercorrere quella strana serata da incubo, a partire dal sangue sulle coppe, passando attraverso i notiziari dal futuro, fino alla camminata in quel corridoio oscuro che l'aveva portato qui.
Sul banco degli imputati.
Stava già sudando gocce gelide, quando si accorse che, nel ripercorrere le varie accuse, il Giudice arrivò a quella che la donna aveva descritto come uno dei crimini più orribili.
Aveva rubato i sogni dei bambini.
“Ed è un crimine per il quale i bambini non sanno concedere perdono.” La voce della donna risuonò nella sua memoria come un orrendo suono la cui eco non si spegneva.
Come l'accordo finale di quel brano di musica classica che ogni tanto ascoltava con piacere.
“A Day in the Life”, si chiamava, ed un amico gli aveva raccontato di come il pezzo narrasse la morte dello stesso musicista, poi sostituito da un sosia. L'accordo finale di quel brano l'aveva sempre affascinato senza un perchè, fino a che l'amico gli disse che simboleggiava il tonfo causato dal chiudersi della bara del musicista.
Improvvisamente sentì il fiato farsi corto. Mal di stomaco ed un conato di vomito lo scossero.
Guardò di nuovo verso il Giudice, e con sorpresa vide i suoi occhi diventare VIVI, mentre si accingeva a leggere il verdetto finale.
Guardò la donna, cercando conforto, ma lei non lo guardava.
Proprio mentre il Giudice esprimeva il suo verdetto, fu scosso da un dolore lancinante al torace, e cadde in ginocchio afferrando il mantello della donna in nero.
Lei si voltò verso di lui, e con stupore il Presidente si accorse che una lacrima stava scendendo sulle guance di quella creatura bellissima e spettrale.
Mentre la vista gli si appannava, si domandò il perchè di quella lacrima: com'era possibile che quella donna stesse piangendo per la sua situazione? O per il suo dolore?
Un'altra fitta gli tagliò in due il petto, e tutto sembrò scomparire, ai suoi occhi, in una luce violentissima.
Improvvisamente, in quell'attimo, realizzò ogni cosa.
La donna piangeva perchè sapeva che, in un modo o nell'altro, il Presidente sarebbe sfuggito ad una giusta condanna ancora una volta.
L'ultima.

"Infarto" sentenziò freddamente il medico legale incaricato di constatare il decesso del Presidente. "Questi uomini d'affari, non hanno regole, non hanno orari, e si finisce così. Un attimo prima stai lavorando alla tua scrivania, ed un attimo dopo, tak! Sei bello che andato, proprio come questo qui..."
"Certo che a vederlo così fa impressione... Ha una faccia... Sembra quasi spaventato, come se prima di morire avesse visto un fantasma... O magari è proprio quello che gli ha fatto venire l'infarto!" chiosò l'ispettore di polizia che lo accompagnava.
Con aria di sufficienza, il medico legale colse l'occasione per sfoggiare il suo bagaglio culturale: "Sono le normali reazioni dei tessuti a seguito del decesso, contrazioni e rilasci del tutto naturali ed involontari che portano il cadavere ad assumere espressioni apparentemente innaturali come questa..."
"Sarà... Però non so come fai, tu, a rimanere sempre così distaccato, così... insensibile..."
"Ti ci fai l'abitudine" rispose il medico. "Ti ci fai l'abitudine o cambi mestiere. Proprio ieri sera ero a un festino finito male. Uno degli ospiti si è tirato giù la dose sbagliata di Crystal e nel raptus successivo ha fatto a pezzi tre o quattro delle ragazze noleggiate con una katana che era appesa nel salone... Non era una bella scena..."
"Come, tre - o - quattro?" domandò l'ispettore insospettito da quella congiunzione disgiuntiva.
"Nel senso che adesso i resti sono in un contenitore da quelli della sezione DNA. Li abbiamo raccolti qua e là, ma non ci tornava il conto dei pezzi. Probabilmente qualcuno se lo deve essere mangiato."
Trattenendo un conato di vomito, l'ispettore chiese agli addetti di portare via il cadavere.
Con gesti misurati sollevarono il cadavere dalla sedia e lo disposero nella body-bag; nel vedere quella scena, con quegli uomini che espletavano la più triste e pietosa formalità che abbia sempre accompagnato l'uomo fin dall'alba della sua storia, l'ispettore non potè non visualizzare nella sua mente opere d'arte di un passato ormai lontano, come la "Deposizione" di Caravaggio o i celebri "dottorini calvi" raccontati dallo scrittore classico King nel suo "Insomnia".
La voce di uno dei due uomini in tuta sterile lo distrasse da questi pensieri.
"Ehi, dottore, e queste?"
Il medico legale si avvicinò all'addetto, e quello gli mostrò un particolare che aveva attirato la sua attenzione.
Il medico guardò distrattamente: "Niente di che. Probabilmente il deceduto, durante gli spasmi dell'agonia, ha urtato quel flacone d'inchiostro che avete trovato rovesciato sulla scrivania, e con quello si è sporcato."
Entrambi i palmi delle mani del cadavere, infatti, erano completamente neri.

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