..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

giovedì 27 maggio 2010

E ANCHE IL MANCIO TRADI' ZILIANI

Chi ha giocato a calcio, in qualsiasi categoria, avrà provato almeno una volta la sensazione di essere defraudato. Basta che un arbitro, alla fine di una partita persa in maniera rocambolesca, stringa la mano al capitano avversario, perché si parta subito con le illazioni di rito: “Ecco, lo vedi? Quello è un loro amico! Lo dicevo io che con questi è impossibile vincere!”. Ho assistito a scene del genere addirittura al termine di partite di allievi: ragazzini di 14 anni che, istigati dai genitori, avanzavano sospetti di ogni tipo su un povero cristo che veniva additato come un vero e proprio picciotto.
Strano a dirsi, ma l’idea che ci sia qualcosa di “losco” riesce ad accomunare il calcio amatoriale a quello professionistico. C’è solo una differenza di fondo: i commenti alle partite degli amatori restano circoscritte all’interno del campo di gioco (al massimo si continua a discutere al bar, subito dopo la fine dell’incontro), quelle tra i professionisti trovano sfogo anche in tv e sui giornali. Ma il tenore è sempre quello: generalmente, chi vince ha qualche santo in paradiso e chi perde ha subìto un’ingiustizia. Che il protagonista si chiami Pinco Pallino e sia un portiere obeso della più infima squadra di Terza Categoria, oppure Carlo Ancelotti ed alleni i Campioni d’Europa, la musica non cambia. Ad ogni sconfitta, magari determinata da una svista arbitrale, il sospetto è automatico: c’è del marcio in Danimarca!

È chiaro che una squadra abituata a vincere si ritrovi molto spesso al centro delle polemiche: è una questione di “foga agonistica”. Così come è altrettanto ovvio che una formazione avvezza alla sconfitta difficilmente sia additata dalle avversarie come la “preferita” dagli arbitri. Generalmente, se gioco una partita e mi vengono fischiati contro due rigori, ma nonostante questo vinco 5-2, al termine dell’incontro mi dimentico di tutto e vado nello spogliatoio a festeggiare. E se qualcuno mi chiede un commento sull’arbitro, rispondo: “Anche lui è un uomo, può sbagliare”. Fatemi la stessa domanda quando perdo 2-0 e probabilmente le mie parole saranno diverse.
Pochi giorni fa, a Napoli, un noto personaggio ha espresso il medesimo concetto: quando si perde, si tende a recriminare. Poi, passa un po’ di tempo e si razionalizza l’accaduto. Avevo urlato contro un arbitro mille improperi al termine di un incontro finito male? Cose che capitano. Oppure dobbiamo anche credere che quando un giocatore apostrofa un direttore di gara con la più antica delle offese abbia in mano le prove della mancanza di serietà di sua moglie?
Ognuno è libero di considerare Roberto Mancini come vuole: antipatico, sopravvalutato, perfino brutto. Ma di certo non si può dire che sia uno stupido. E quando si è trovato davanti ad un giudice, ha pensato bene di rispondere chiaramente a ciò che gli veniva chiesto dal PM: “In quei momenti lì, cioè preso dalla foga dalla partita, uno può dire qualsiasi cosa”. In poche parole, il Mancio, che doveva essere uno dei testimoni-chiave di questo processo, ha dato un giudizio definitivo sull’intero impianto accusatorio: chiacchiere che valgono zero assoluto. È piacevole constatare di non essere gli unici ad avere questa convinzione.
C’è poco da dire: Mancini non è Zeman e neppure Armando Carbone. Il Mancio è un uomo di successo, che è stato protagonista sia come calciatore che come allenatore e che attualmente siede sulla panchina di uno dei club più ricchi del mondo. In altre parole: non è un fallito depresso e neppure un uomo in cerca di visibilità.
Ed è proprio su questo punto che hanno sbagliato coloro che puntavano su di lui per una stoccata alla fanta-cupola: speravano nello show dell’ennesimo clown, ma si sono ritrovati una persona equilibrata, che ha espresso concetti tanto naturali da sembrare quasi banali.
Che delusione per i forcaioli!
Quella dei giornalisti con il cappio in mano era una vasta armata, che si sta però rapidamente assottigliando: di giorno in giorno, mentre il castello di pastafrolla goffamente messo in piedi dall’accusa sta cedendo, assistiamo all’esodo di montagne di professionisti dell’“informazione” che attraversano il fiume, per trovare posto sul lato giusto. E possiamo starne certi: a breve, li vedremo attaccare con foga coloro che fino a ieri l’altro erano venerati come portatori di verità. I rappresentanti della Procura farebbero bene a prepararsi in tal senso.
Ma, come in tutti gli eserciti allo sbando, ci sono anche i soldati meno accorti, che fino all’ultimo provano a difendere un fortino semidistrutto. E il caporale Ziliani è uno di quelli: si batte come un indemoniato, inferocito con coloro che lui probabilmente giudica autentici traditori. Uno come Mancini, che anziché attaccare a testa bassa l’odiato Moggi, a costo di beccarsi un’accusa di spergiuro, si è limitato a raccontare i fatti, è imperdonabile agli occhi dei fanatici farsopolisti. E allora per Ziliani il Mancio dimostra di essere un “coniglio”, una “mezza tacca come uomo” e via discorrendo. Pover’uomo… non si accorge che l’esercito di cui fa parte è allo sfascio e che a combattere sono rimasti solo pochi altri esaltati come lui.
A breve, visto il numero esiguo di reduci, Ziliani e compagni potranno ritrovarsi tutti insieme per una canasta, ricordando i bei tempi in cui attaccavano impunemente i personaggi che invidiavano e magari azzuffandosi per un jolly che è finito nelle mani di un avversario. In alternativa, consiglio una gita turistica a Roma: finalmente potranno dire di avere le prove che la cupola esiste. I promotori? Ovviamente Moggi. E un altro tale, che di nome fa Michelangelo Buonarroti.

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