Che in Italia la giustizia viva in un profondo letargo è sotto gli occhi di tutti, che questa sia guercia con alcuni e zelante con altri l'abbiamo potuto constatare in più di un'occasione. E, con la storia davanti, ci si rende conto che il pettegolezzo sembra più credibile della pratica giudiziaria.
Arrivati a questo punto potremmo anche far finta che tutto sia normale e che, quindi, la giustizia abbia colpito il cancro del calcio italiano, liberandosi per sempre di chi, questo giuoco, lo ha reso sporco e truccato. Ma è un falso.
La barbarie giudiziaria si è stabilizzata su due aspetti ben precisi: a) l'amico spogliato delle sue bugie è una vittima, e la notizia da riportare un semplice atto dovuto; b) il nemico un delinquente in attesa di condanna, e le leggende raccontate su di esso la dimostrazione che i sospetti erano fondati.
L'evolversi di questo percorso porta alla difesa delle proprie teorie e dei propri idoli, annullando ogni valore.
Il cammino di Calciopoli è l'esempio concreto di quanto scritto, dove l'arbitro chiuso nello spogliatoio è diventata notizia di reato non per l'atto compiuto (giudicato non veritiero da un tribunale) ma per i pettegolezzi usciti sui giornali.
Sono sicuro che una parte del popolo si sollazzi, a tale spettacolo, ma sono altresì certo che c’è anche chi storce la bocca, che preferirebbe una giustizia con costumi più riservati, con un’idea più grave del ruolo che ricopre, e che sia in grado di sentire il disagio, per non dire la rabbia, circa il confondersi dei giudizi penali con quelli estetici.
Il dettaglio dell'arbitro chiuso nello spogliatoio, o delle ammonizioni mirate a Pinzi, Muntari e Di Michele, o delle sim svizzere date in pasto all'opinione pubblica come non rintracciabili e bisognose di rogatoria, sono e rimangono un dettaglio, ma questi sono passaggi in cui vedo un declino profondo e mesto, sia della nostra vita collettiva che di uno sport divenuto, e infettato dalle patologie della giustizia sportiva, sempre meno credibile.
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