Ogni giorno che passa, il pressapochismo e l’inconsistenza delle accuse rivolte alla vecchia dirigenza juventina si fanno sempre più evidenti.
Ormai, a parte pochi esaltati incapaci di vedere la realtà dei fatti, anche coloro che per quattro anni hanno sparato ad alzo zero contro Moggi e Giraudo si sono preoccupati di modificare le loro posizioni e, soprattutto, gli obiettivi dei loro attacchi. E così, da un po’ di tempo a questa parte, assistiamo ad eventi che, non più di un paio di mesi fa, neppure i più ottimisti potevano auspicare: giornalisti che in tv dichiarano apertamente di ritenere Moggi e Giraudo innocenti, articoli su Repubblica e Corriere che mettono in discussione l’operato dei pubblici ministeri, personaggi più o meno noti che evidenziano la scorrettezza di chi dovrebbe essere super partes e invece non fa nulla per nascondere le proprie simpatie calcistiche. Insomma, la musica sembra essere cambiata notevolmente.
Ma facciamo qualche passo indietro, per cercare di capire quale potrebbe essere stata la scintilla scatenante questo mutamento.
Durante l’ultima udienza, De Santis ha prodotto il documento della Figc in cui si regolava l’accesso dei dirigenti nello spogliatoio degli arbitri, dimostrando una volta di più che era consentito. Era davvero necessario arrivare a tanto, perché tutti si convincessero?
Nella stessa udienza, il notaio Iori ha testimoniato l’assoluta correttezza dei sorteggi: «Non ho mai avuto sospetti di irregolarità». Si è espresso sulla medesima lunghezza d’onda anche Pesciaroli, uno dei giornalisti generalmente presenti a quei sorteggi: «Non ho mai avuto impressione che ci fosse qualcosa di sospetto. Magari avessi fatto questo scoop, almeno avrei avuto la possibilità di allungarmi la carriera. Se avessi visto qualcosa di irregolare certo non me ne sarei stato zitto». Era davvero necessario arrivare a tanto, perché tutti si convincessero?
Qualche giorno prima, durante la propria deposizione, Roberto Mancini, colui che tutti aspettavano in qualità di “grande accusatore” della Triade, ha smontato le sue stesse dichiarazioni, motivandole con la “foga agonistica” successiva ad una partita. Era davvero necessario arrivare a tanto, perché tutti si convincessero?
Nelle settimane precedenti, abbiamo assistito alla sfilata di testimoni teoricamente dell’accusa, che hanno lavorato talmente bene per la difesa da indurla a ridurre considerevolmente il numero dei propri testi. Era davvero necessario arrivare a tanto, perché tutti si convincessero?
Nello stesso periodo, abbiamo finalmente letto e ascoltato le conversazioni telefoniche intercorse tra i designatori e gli altri dirigenti, scoprendo una volta per tutte che il rapporto che Bergamo e Pairetto avevano con Moggi e Giraudo era identico a quello riservato a praticamente tutti i dirigenti di serie A, primi fra tutti gli “onesti” fruitori di scudetti altrui. Era davvero necessario arrivare a tanto, perché tutti si convincessero?
No. Non lo era.
E a pensarci un attimo, non c’era neppure bisogno di cominciarlo, questo processo: sarebbe stato sufficiente un piccolo ragionamento.
È stata imbastita un’accusa di associazione a delinquere, che più o meno suonava così. Moggi e Giraudo, mediante una potentissima rete di conoscenze, comandavano il calcio, facendo il bello e il cattivo tempo: riuscivano a fare vincere lo scudetto a quegli scarponi degli juventini (giocatori come Buffon, Cannavaro, Thuram, Nedved, Emerson, Ibrahimovic, Del Piero… che non avrebbero mai potuto vincere contro Toldo, Burdisso e Recoba) e decidevano addirittura chi doveva retrocedere.
E chi faceva parte di questa “cupola”? Uomini di primo piano come Innocenzo Mazzini (personaggio di cui, fino al giorno prima dell’esplosione di Farsopoli, la stragrande maggioranza degli italiani non conosceva neanche l’esistenza), i designatori Bergamo e Pairetto e una manciata di arbitri.
E chi erano le vittime di questa oscura macchinazione? Dei poveracci, gente che non aveva alcun potere… Nominiamone tre a caso: Diego Della Valle, Silvio Berlusconi, Massimo Moratti.
Quest’ultimo, in particolare, è stato dipinto come un disgraziato che, rimanendo estraneo ai giochi di potere orchestrati dai potentissimi Moggi e Giraudo, è sempre stato trattato come un fesso dai fortissimi Mazzini, Bergamo e Pairetto.
La settimana scorsa, in occasione della presentazione di un libro, abbiamo visto Narducci, il PM che conduce l’accusa contro Moggi, salutare amabilmente proprio lui: Massimo Moratti. Lo stesso Moratti stava seduto di fianco al colonnello Auricchio: colui che ha organizzato le indagini (in altre parole, ha ritagliato gli articoli della Gazzetta). Mi è sembrata la scena di uno di quei film ambientati in uno sperduto stato sudamericano, con il potente di turno circondato da un codazzo di ammiratori, che al suo cospetto dimostrano tutta la loro reverenza, salvo poi trasformarsi in duri inquisitori quando hanno a che fare con un membro del “popolaccio”. Insomma, una scena raccapricciante.
Una decina di giorni prima, Moratti se ne stava al Santiago Bernabeu a guardare la finale della sua Inter, con il presidente dell’Uefa Platini, con il presidente della Figc Abete, con l’ex-presidente di Telecom Tronchetti Provera, con l’amministratore delegato di Unicredit (sponsor della Champions League) Profumo, con l’ex-commissario straordinario (ed ex-consigliere interista) Guido Rossi. E con tanti altri che non stiamo neanche ad elencare.
Proviamo a mettere su un piatto della bilancia Moggi, Giraudo, Mazzini, Bergamo e Pairetto. Nell’altro mettiamoci Moratti, Narducci, Rossi, Profumo e Tronchetti. Non è difficile capire da che parte penderà.
Insomma, dobbiamo fingere ancora a lungo di credere alle favole, oppure possiamo cominciare a domandare seriamente se ci fosse davvero bisogno di fare un processo, perché tutti si convincessero dell’assurdità di questa vicenda?
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