..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

lunedì 28 febbraio 2011

REPORT: ARSENAL 1-2 BIRMINGHAM

Ho visto Jack Wilshere uscire dall'arena di Wembley con gli occhi gonfi di lacrime; ho visto Theo Walcott abbracciare come un fratello Wojciech Szczesny; ho visto lo sguardo perso nel vuoto di Samir Nasri; ho visto il volto affranto a fine gara di Arséne Wenger; ho visto l'espressione di amarezza di Cesc Fabregas; ho visto van Persie fare il "capitano", offrendo una pacca sulle spalle a tutti; ho visto Eboue, Almunia e Gibbs stringersi attorno al dolore dei compagni; ho visto Pat Rice parlare a Laurent Koscielny, parole che avranno spiegato al ragazzo francese che così è la vita: a volte si perde a volte si vince.
E solo dopo aver visto tutto questo l'amarezza per la sconfitta si è fatta più tenue, si è come addolcita, perché non c'è coppa al mondo che possa valere l'affetto che questi ragazzi si sono scambiati a fine gara. Facile abbracciarsi e darsi il "cinque" quando s'è vinto, quando le cose sono andate come si sarebbe voluto, quando 107 gradini sono lì che aspettano di essere scalati per celebrare il trionfo. Meno semplice quando sono gli altri a farlo, perché solo in quel momento si capisce la forza del gruppo, solo in quell'istante ci può essere la coesione per un traguardo sfuggito e la forza per rialzarsi, tutti insieme.
Oggi sono dispotico, e non accetto leggere che questa squadra non è capace a vincere, che questa squadra s'è sciolta come neve al sole nel momento in cui c'era da mettere il sigillo su questa Carling Cup. Non l'accetto. Non accetto leggere che questa squadra è perdente, non accetto leggere di pessima gestione del match o dell'errore di Laurent Koscielny e Wojciech Szczesny, e men che meno accetto leggere che l'assenza di Fabregas ha influito e quella di Walcott c'ha privato di chissà quale eurogol. Perché se il concetto di squadra perdente dev'essere affiancato ad un gruppo che è arrivato in finale di Coppa di Lega, che si sta giocando come non mai il titolo di Premier, che è ancora in corsa in FA Cup e che tra dieci giorni si andrà a giocare il passaggio ai quarti di finali di Champions League a Barcellona, dopo aver vinto la gara di andata, allora di calcio non c'ho capito niente. I perdenti di ieri sono le novanta squadre che non c'erano, quelle che hanno partecipato alla competizione e non sono scese sul terreno di gioco di Wembley. Noi c'eravamo, con orgoglio, e con tutto quello che avevamo abbiamo cercato di portarla a casa, uscendo a testa alta, senza rimpianti, perché quando dai tutto te stesso non c'è persona al mondo che possa puntarti il dito e dirti che potevi fare di più.
La delusione c'è, sarebbe stato deleterio il contrario, e lo stesso Wenger l'ammette senza nascondersi dietro ad un dito, d'altronde il divario tra noi e i Blues era stato ampiamente dimostrato nelle due gare di Premier, in cui eravamo usciti vincitori sia dalla gara di andata che in quella di ritorno. Ma questo è football, non una scienza esatta, e purtroppo per noi gli applausi, meritati, questa volta sono andati agli uomini di Alex McLeish.
Oggi dovrei stare con il morale a terra, vuoto dentro, pieno di pensieri ed immagini su come sarebbe stato bello vincere. Oggi, invece, sono fiducioso, penso che aver perso la Carling Cup, dopo essere arrivati fino in fondo, possa essere il giusto punto di ri-partenza.
E' paradossale il solo pensarlo, ma credo che questa sconfitta sia più importante di una vittoria. Forse perché immagino che nello sguardo perso nel vuoto di Samir Nasri possa esserci la voglia di scendere nuovamente in campo, a dimostrare chi è il più forte, perché in quell'abbraccio di Theo Walcott a Wojciech Szczesny ci sia tutta l'essenza del valore umano di questi ragazzi. Vincere avrebbe dato morale, fiducia, avrebbe certificato la straordinaria stagione fin qui disputata dai Gunners, perdere ha offerto tristezza, delusione, farà nascere molte domande all'interno dello spogliatoio.
E allora ripenso a Jack, ai suoi occhi gonfi di lacrime, a quella mimica facciale che esprimeva un dolore immenso, e non posso far altro che credere che in quelle lacrime risieda rabbia, amore per questi colori, la voglia di rimettersi in piedi, un'occasione unica per dimostrare che abbiamo la forza mentale per reagire ad una situazione del genere. Ripenso a Pat Rice e Laurent Koscielny, a quelle parole dette e non sentite, e che mai come ieri hanno offerto a tutti noi la realtà dello sport, come della vita: a volte si perde altre si vince.

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