Era doveroso attendere, aspettare, trattenersi, indugiare, risultare persino scettici davanti alla notizia che ha scosso e commosso un mondo intero. Calcistico e sportivo, politico e religioso, benpensante e irriverente.
Perché esiste una differenza sostanziale, concreta, dall'essere umani o appartenere a qualsivoglia divinità, che questa sia cristiana, come lui non era, o pagana, appartenente a quel popolo, a quella popolarità di cui ha fatto parte, e alla quale per sempre apparterà.
Un mondo che ha abitato, da allora. Dove resta.
Su di una maglietta che il tempo ha scolorito, su di una bandiera che vento, pioggia e sole hanno accarezzato.
Sui muri di case ormai vecchie, sopra persiane spalancate dove giorno e notte, alba e tramonto colorano quei capelli neri e ricciuti che hanno fatto innamorare, gioire, piangere.
Nei cuori, nella memoria di chi, ieri bambino oggi artigiano, operaio o disoccupato continua a viaggiare in un presente connesso al passato, dove in eterno, umano o divinità, lui vivrà.
Ironia, genio, sregolatezza, attitudini che lo facevano riconoscere, riconoscendosi per affinità in qualcosa di spirituale, mistico, trascendentale.
Fragile e fallace, oltre ogni moralismo, a dispetto di cadute, inciampi, ginocchia spezzate.
Quelle che prima il campo e poi la vita lo hanno messo di fronte all'essere uomo, divinità.
Capace di piegare la storia, di fare la storia di un quartiere, di una nazione, di un mondo che grazie al semplice rotolare di un pallone lo ha eletto senza indossare una sciarpa, vestire una maglia, abbracciare un colore.
Il terzo giorno non ci restituirà i suoi tratti, i suoi sorrisi, i suoi saluti, la sua materialità fisica.
Manterrà invece la sua individualità personale, dimensione dell'eternità, un miracolo.
Un'aneddotica sterminata intrappolata per sempre in un sogno promesso e mantenuto.