..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

sabato 7 marzo 2009

LA NOTTE CHE PINELLI

Il 12 dicembre fu un giorno – una sera – così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c’era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire. Era un altro mondo, del resto. Quarant’anni fa – quasi il doppio del tempo che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! Non serve a granché dirti che la televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero: lo sarebbe stata ancora fino al 1977. Servirebbe di più raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel dicembre del 1969.
C’è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell’Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C’è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte. Al processo, il giudice chiederà a uno di loro, il verbalizzante, brigadiere Caracuta: «Avete fumato tutti durante l’interrogatorio?». Caracuta: «Sì, lei capisce eccellenza… fumavamo tutti come turchi». Perciò, nonostante sia una notte di mezzo dicembre – il 15, proprio – la finestra è socchiusa, per cambiare l’aria. C’è anche un’ottava persona, il carabiniere Sarti, quasi sulla soglia. Sarti: «Uscii dalla stanza per andare a prendere le sigarette che avevo lasciate dentro l’impermeabile… rientrai subito, accesi la sigaretta e poi…». Poi vede una persona, uno dei fumatori, buttarsi nel vuoto. Sarti: «Mi ero distratto un attimo, stavo appunto fumando la sigaretta, e ad un certo punto ho sentito come qualcosa sbattere, un colpo secco. Allora mi girai di scatto e vidi proprio una persona buttarsi nel vuoto…». Era Pinelli, il ferroviere. Appena prima un altro dei presenti, il brigadiere di P.S. Mainardi, gli aveva dato da fumare. L’ultima sigaretta. Mainardi: «Io sono rimasto là, accesi una sigaretta; nella circostanza Pinelli mi chiese ‘mi dia una sigaretta’ e io gliel’ho accesa». Pinelli fuma, dice qualcuno, e va alla finestra per scuotere la cenere. Un cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, sta uscendo dalla Sala stampa, si ferma un momento sui gradini che scendono in cortile ad accendersi una sigaretta, sente il rumore di qualcosa che sbatte, poi dei tonfi. Di sotto, nel cortile della Questura, un agente semplice, la guardia Manchia, sostiene di vedere un uomo – un’ombra – che cade giù dal quarto piano, e più distin- tamente di lui – è mezzanotte, il cortile è buio – la brace di una sigaretta che lo accompagna per qualche metro, prima di spegnersi. Secondo altri fermati, Pinelli aveva trascorso quei tre giorni facendo parole crociate, leggiucchiando quello che trovava – un libro giallo, un opuscolo su automobili – e soprattutto fumando. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette». Più tardi, quella notte, morto Pinelli, il questore Marcello Guida riceve i giornalisti. C’è anche Camilla Cederna. «La signora Cederna? Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, anzi le dirò che sono un suo ammiratore… Vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi».
Si fumava come matti, tutti, guardie e rivoluzionari, anarchici e monarchici. Nessuno avrebbe immaginato senza ridere un pacchetto di sigarette con su la scritta «Il fumo uccide». Gli anni di piombo erano di là da venire. Questi erano anni di fumo.
La moglie del ferroviere si chiamava Licia. Avevano due bambine. Quel giorno avevano già preparato i regali per Natale. Le bambine portarono poi al cimitero il regalo per il loro padre e lo posarono sulla tomba: un pacchetto di sigarette.
Non so che cos’altro dirti, ragazza, per darti un’idea del trauma di quei tre giorni. Prima la strage, orrenda, inaudita. Poi l’anarchico, «suicida» confesso, dal quarto piano della Questura. Poi – subito dopo, a soppiantare e insieme completare la notizia – la cattura della belva Valpreda. Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva.
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Ho finito di leggere il libro di Adriano Sofri sulla notte in cui Pinelli cadde dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano. Non è per niente il libro di cui si era parlato sui giornali, prima che uscisse e che qualcuno lo leggesse. Non è un libro su Pinelli e Lotta Continua, su Sofri e il commissario Luigi Calabresi. Il libro, formidabile, è un'inchiesta sui testi, sui documenti, sulle carte processuali e no che ha me ha svelato molti particolari grandi e piccoli che non conoscevo. E' un'inchiesta sciasciana, come L'Affaire Moro. Ci fossero seri premi giornalistici, "La notte che Pinelli" vincerebbe a mani basse. Nel libro ci sono giudizi che condivido e altri no, ma il punto centrale è la storia, l'intreccio di verità e bugie di quelle ore e di tutti questi anni. Alla fine, Sofri dice di non sapere che cosa sia davvero successo in quel quarto piano.
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