Limitiamoci alla politica estera. Aver scelto Robert Gates come segretario alla Difesa, la Clinton come segretario di Stato, Holbrooke e Mitchell in posti chiave dell’amministrazione, era già stato un segnale che Obama si sarebbe mosso in continuità con Bush. Averlo fatto non gli è costato granché in termini di consenso, anzi.
In campagna elettorale, Obama aveva promesso che avrebbe ricucito gli strappi del suo predecessore con gli alleati europei. Ma le cose sono andate diversamente. Il presidente è sbarcato in Europa per cercare alleati sia nella gestione della crisi economica sia per il fronte afghano. Ma la Germania ha risposto picche quando Obama ha chiesto alla Mekel di incrementare il piano di stimolo tedesco all’economia; sia la Germania che la Francia hanno accolto con poca convinzione la richiesta americana di inviare nuovi rinforzi in Afghanistan (gli alleati europei continueranno ad essere presenti con poche truppe a Kabul, con missioni dai “caveat” limitati e per un breve periodo di tempo).
Prendiamo la Russia. In campagna elettorale, e dopo, Obama aveva promesso di “resettare” le relazioni diplomatiche con Mosca. Il patto doveva essere questo: gli Usa avrebbero rinunciato al sistema di difesa missilistico in Polonia ed Europa Orientale in cambio dell’aiuto della Russia per far arrivare le truppe americane in Afghanistan e nel contenimento del decollo nucleare iraniano. Il Cremlino ha rifiutato l’offerta mostrando a Obama che la Russia non ha alcuna intenzione di rinunciare alle sue pretese egemoniche nello spazio post-sovietico. Così Obama non potrà fare altro che riaffermare la politica di Bush, ovvero la libertà degli Usa di poter giocare diplomaticamente con i Paesi nell’orbita di Mosca. Il programma dello Scudo spaziale non tramonta, gli Usa non avranno l’aiuto di Mosca nella logistica nella guerra afgana, la Nato potrà continuare a estendersi in Europa Orientale.
Obama aveva promesso di non tenere un giorno di più del dovuto le truppe Usa in Iraq. Dopo la vittoria ha ridimensionato i tempi del ritiro ma, soprattutto, ha confermato la strategia di Petraeus prendendola come un modello da estendere anche in Afghanistan. Il presidente ha provato a tendere la mano al regime iraniano – facendo sapere che gli Usa erano pronti a discutere con Ahmadinejad senza precondizioni (a differenza di quanto fece Bush) – ma Teheran ha rifiutato l’offerta. Gli iraniani, che non sono degli stupidi, si rendono conto che quello americano è stato un semplice cambiamento di facciata mentre la politica estera degli Usa resta la stessa.
D’altra parte l’Iran è collegato a uno scenario più complesso in cui rientrano anche le altre potenze dell’area, il cosiddetto fronte dei paesi arabi “moderati”, le potenze sunnite preoccupate dall’espansionismo iraniano: la linea di credito offerta a Teheran ha spaventato l’Arabia Saudita e rafforzato la Siria nella sua posizione di mediatore tra l’Iran, Israele e gli Stati Uniti. Obama è consapevole di tutto questo e probabilmente si rende conto che, per tagliare il nodo di gordio iraniano, non è sufficiente la politica della Casa Bianca.
L’unica vera novità di questi cento giorni è stato il viaggio di Obama in Turchia. Oltre ad aver ceduto ad Ankara il comando della lotta alla pirateria, Obama spera che la Turchia possa servire a bilanciare la potenza iraniana, a proteggere gli interessi americani nel Caucaso, a stabilizzare l’Iraq, e ad aiutare gli Usa sia per quanto riguarda l’agenda siriana che quella afghana. Cento giorni all’insegna della continuità con una sola novità. Aspettiamo le prossime mosse del presidente.
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