Barack potrebbe conquistare la California. Ma il duello tra i democratici rischia di protrarsi per mesi
LOS ANGELES — Il «Dio della seconda chance» forse non salverà Hillary Clinton. E il disagio dell’abbondanza vissuto dagli elettori democratici, consumati dal rovello tra la prima donna e il primo afroamericano, potrebbe preludere alla più incerta, drammatica e in ultima analisi distruttiva battaglia per la nomination alla Casa Bianca da decenni a questa parte.
Nessuno sembra intuirlo meglio di Bill Clinton, nella sua Canossa senza scuse tra le Chiese battiste afroamericane della contea di Los Angeles. «Ho sognato per tutta la vita di poter votare per un presidente nero o per una presidente donna — dice alla Baptist Church of the New Covenant —, ma in questa domenica mi sento come se l’Onnipotente si stesse divertendo a giocare a carte con i nostri cuori e le nostre menti. Dobbiamo trovare un modo di scegliere senza dividerci».
È il «mea culpa tour». Bill Clinton prova a placare il risentimento e la delusione della comunità afroamericana, dopo i giorni dell’ira seguiti ai suoi spruzzi di veleno contro Barack Obama. Nessun pentimento, ma parole di pace e di unità: «Rispetteremo ogni vostra scelta, se non potete essere per Hillary, onoreremo la vostra decisione».
L’ex presidente recita la causa della moglie, che poi in realtà è la sua, visto che a ogni passo inciampa nel bilancio della propria amministrazione: «Accusano Hillary di volerci riportare agli Anni Novanta? Beh, non erano poi così male». Ma anche se conclude citando la Genesi, «la nostra salvezza verrà dalle cose che abbiamo fatto», i fedeli non appaiono convinti. Lo applaudono con cortesia, sono in fila per stringergli la mano, ma il retrogusto di un incantesimo che si è rotto rimane. «Gli errori li fanno tutti — dice Kerry Davis, analista in una compagnia finanziaria —, ma lui non ha chiesto scusa. Ho apprezzato il suo discorso. Comunque non è questo il punto. Nero o no, Barack guarda avanti, non al passato. E parla dell’anima, prima che dei problemi. Penso che l’America ne abbia bisogno».
C’è probabilmente in questa frase tutto il senso di quanto sta accadendo in queste ore negli Stati Uniti, nell’universo democratico. Come il rumore lontano ma crescente di uno tsunami che si avvicina, l’onda anomala di Barack Obama minaccia di sconvolgere per sempre la tradizionale geografia politica dei progressisti. Non è affatto detto che faccia in tempo. Anzi è probabile che le poche ore ormai rimaste prima del voto di oggi in 24 Stati (oltre 1600 delegati alla convention in palio) non siano sufficienti all’insurrezione generazionale del cambiamento, per mandare all’aria la disciplinata, formidabile, ma pur sempre convenzionale macchina da guerra clintoniana. L’impressione del Grande cataclisma alle porte però rimane.
Lo suggeriscono i sondaggi, di cui è bene diffidare naturalmente viste le pessime prove offerte fin qui. Da costa a costa, Obama è segnalato in velocissima risalita, secondo alcuni addirittura avanti in California e nel Massachusetts dei suoi nuovi méntori, i Kennedy. Barack sarebbe un passo dietro Hillary a casa di lei, a New York, e testa a testa nel New Jersey, un altro degli Stati con un ricco bottino di delegati, considerato il muro anti incendio dei Clinton, dove ieri anche Robert de Niro è andato a far campagna per il senatore nero. Ancora più clamoroso suona un «poll dei polls» nazionale, calcolato dalla Cnn facendo la media di tutte le principali rilevazioni statistiche, che dà a Hillary un esiguo 45 a 43. Appena due settimane fa era 42 a 33.
Chiunque finisca in testa, l’esito probabile sarà una divisione dei delegati tale da protrarre il duello ancora per mesi. Scenario pericoloso per le speranze democratiche, ora che i repubblicani sembrano aver trovato in John McCain il loro campione, il più difficile da battere per chiunque ottenga la nomination progressista: bipartisan, simpatico agli indipendenti, in grado anche di attirare voti democratici moderati. Anche per il senatore dell’Arizona non è fatta, ma è in testa in tutti o quasi i 20 Stati dove si tengono le primarie repubblicane. E dovremmo tutti aver preso un grandissimo abbaglio, se Mitt Romney, il suo avversario, sosia piacione e mormone di Cary Grant, facesse la sorpresa.
Paolo Valentino
È il «mea culpa tour». Bill Clinton prova a placare il risentimento e la delusione della comunità afroamericana, dopo i giorni dell’ira seguiti ai suoi spruzzi di veleno contro Barack Obama. Nessun pentimento, ma parole di pace e di unità: «Rispetteremo ogni vostra scelta, se non potete essere per Hillary, onoreremo la vostra decisione».
L’ex presidente recita la causa della moglie, che poi in realtà è la sua, visto che a ogni passo inciampa nel bilancio della propria amministrazione: «Accusano Hillary di volerci riportare agli Anni Novanta? Beh, non erano poi così male». Ma anche se conclude citando la Genesi, «la nostra salvezza verrà dalle cose che abbiamo fatto», i fedeli non appaiono convinti. Lo applaudono con cortesia, sono in fila per stringergli la mano, ma il retrogusto di un incantesimo che si è rotto rimane. «Gli errori li fanno tutti — dice Kerry Davis, analista in una compagnia finanziaria —, ma lui non ha chiesto scusa. Ho apprezzato il suo discorso. Comunque non è questo il punto. Nero o no, Barack guarda avanti, non al passato. E parla dell’anima, prima che dei problemi. Penso che l’America ne abbia bisogno».
C’è probabilmente in questa frase tutto il senso di quanto sta accadendo in queste ore negli Stati Uniti, nell’universo democratico. Come il rumore lontano ma crescente di uno tsunami che si avvicina, l’onda anomala di Barack Obama minaccia di sconvolgere per sempre la tradizionale geografia politica dei progressisti. Non è affatto detto che faccia in tempo. Anzi è probabile che le poche ore ormai rimaste prima del voto di oggi in 24 Stati (oltre 1600 delegati alla convention in palio) non siano sufficienti all’insurrezione generazionale del cambiamento, per mandare all’aria la disciplinata, formidabile, ma pur sempre convenzionale macchina da guerra clintoniana. L’impressione del Grande cataclisma alle porte però rimane.
Lo suggeriscono i sondaggi, di cui è bene diffidare naturalmente viste le pessime prove offerte fin qui. Da costa a costa, Obama è segnalato in velocissima risalita, secondo alcuni addirittura avanti in California e nel Massachusetts dei suoi nuovi méntori, i Kennedy. Barack sarebbe un passo dietro Hillary a casa di lei, a New York, e testa a testa nel New Jersey, un altro degli Stati con un ricco bottino di delegati, considerato il muro anti incendio dei Clinton, dove ieri anche Robert de Niro è andato a far campagna per il senatore nero. Ancora più clamoroso suona un «poll dei polls» nazionale, calcolato dalla Cnn facendo la media di tutte le principali rilevazioni statistiche, che dà a Hillary un esiguo 45 a 43. Appena due settimane fa era 42 a 33.
Chiunque finisca in testa, l’esito probabile sarà una divisione dei delegati tale da protrarre il duello ancora per mesi. Scenario pericoloso per le speranze democratiche, ora che i repubblicani sembrano aver trovato in John McCain il loro campione, il più difficile da battere per chiunque ottenga la nomination progressista: bipartisan, simpatico agli indipendenti, in grado anche di attirare voti democratici moderati. Anche per il senatore dell’Arizona non è fatta, ma è in testa in tutti o quasi i 20 Stati dove si tengono le primarie repubblicane. E dovremmo tutti aver preso un grandissimo abbaglio, se Mitt Romney, il suo avversario, sosia piacione e mormone di Cary Grant, facesse la sorpresa.
Paolo Valentino
05 febbraio 2008
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