... a mettere subito le mani nel ginepraio del Pakistan, vero baricentro del terrorismo islamico (L'Occidentale del 28 novembre)
Il primo ministro indiano Manmohan Singh, ha energicamente chiesto che il capo dei servizi Isi del Pakistan, il tenente generale Ahmed Shuja Pasha, si rechi immediatamente in India per riferire quello che sa della battaglia di Mumbai. Richiesta assolutamente irritale, che ha preso in contropiede il premier pachistano Raza Gilani che aveva telefonato a Singh per una rituale telefonata di condoglianze. Richiesta che qualsiasi altro stato avrebbe gentilmente declinato (inviando protocollarmene il ministro degli Interni) e che invece Gilani e il presidente della Repubblica Zerdari hanno dovuto immediatamente accettare, pur nella piena convinzione che da questa visita e dallo scambio di informazioni tra Islamabad e Dehli non potranno che venire fortissimi contraccolpi politici –e anche peggio- nel già tormentato Pakistan. Il responsabile dell’Isi infatti, sa benissimo che hanno ragione i servizi indiani –e la Cia- quando sostengono che l’attentato del luglio scorso contro l’ambasciata indiana di Kabul è stato organizzato da settori del suo servizio. Sa anche, che le accuse di piena compromissione di una parte dei suoi servizi nella carneficina di Mumbai sono assolutamente vere e quindi, questa “convocazione” eterodossa si risolverà in doppio disastro. Assieme alla pessima figura che faranno i servizi pakistani, l’umiliante rendiconto che dovrà fare e le imbarazzanti risposte che dovrà fornire ai colleghi indiani provocherà –come sempre- una dura reazione proprio dei settori “deviati” dell’Isi, con un non piccolo problema in più: nell’Isi, a essere “deviata” non è affatto una minoranza del servizio, ma l’intero corpo, con l’eccezione solo di alcuni vertici –non tutti- e di alcuni responsabili di settore. Questo, perché la battaglia di Mumbai mette il sigillo sull’unico, vero, errore strategico che l’amministrazione Bush ha consumato nella battaglia al terrorismo. In perfetta continuità infatti con le amministrazioni Usa, che da Carter in poi hanno considerato i vertici militari pakistani il perno strategico dell’intero equilibrio dell’Asia continentale, Bush si è infatti illuso che il regime di Musharraf –che decise in 24 ore di passare dall’appoggio dei Talebani al loro contrasto- potesse esserlo nella lotta al terrorismo. Ma l’intero quadro di comando delle Forze Armate pakistane ha due caratteristiche biografiche uniche al mondo: è interamente composto da militari che 38 anni fa, a inizio carriera combatterono la sanguinosa guerra del Bangladesh contro l’India ( un milione di morti) e quelle –minori- per il Kashmir, e poi è interamente composto dai migliori quadri militari di quella guerra che il generale Zia ul Haq volle al suo fianco dopo il golpe del 1978. Ma Zia ul Haq era un fondamentalista, reintrodusse la shari’a, punì con la morte il reato di blasfemia anticoranica e creò un equilibrio unico al mondo: un quadro militare fortemente motivato in direzione fondamentalista, dotato però di una formazione tecnica –fornita dagli usa- di primissimo grado, tanto che pilotò l’acquisizione della bomba atomica (sempre in funzione antindiana).
Negli ultimi 20 anni, nel caos dei vari governi che si sono succeduti a Islamabad, questo quadro militare ha mantenuto la sua omogeneità politica, il suo profondo odio antindiano, la sua ideologia fondamentalista. Musharraf, capo di stato maggiore, nel 1999 provocò la guerra a bassa intensità con l’India a Kargil, nel Kashmir, appoggiò in maniera determinante i Talebani (letteralmente organizzati e istruiti dai generali pakistani dell’Isi) e consolidò la strategia pakistana che da Zia ul haq in poi ha sempre considerato l’Afghanista “spazio vitale” per la sicurezza del Pakistan. Il 12 settembre 2001, in poche ore e “oliato” con due miliardi di dollari (che in parte intascò, in parte distribuì a generali in posizione chiave, in parte investì nella forze armate), Musharraf cambio radicalmente strategia, e si mise a combattere –in teoria- contro tutte le sue iniziative, strategie e alleati degli ultimi anni. La incredibile illusione dell’Amministrazione Bush –peraltro mai contestata da nessun esponente democratico- fu quella che tanto bastasse. In realtà, l’influenza e la forza dei generali fondamentalisti dell’Isi è stata tale da intralciare in maniera mortale la stessa lotta al terrorismo. Se Osama bin Laden è ancora libero, assieme a tutto il vertice di al Qaida, lo si deve solo e unicamente all’esplicito aiuto dell’Isi.
Insomma, quella generazione di generali che si fece le ossa nel Bangladesh e che poi salì a posizioni di comando con Zia ul Haq, costituisce una sorta di formidabile “motore immobile” che alimenta, rafforza, arma e aiuta tutto il grande arcipelago del terrorismo islamico nell’Asia continentale. Lo stesso attentato del luglio 2005 a Londra è prodotto di questa dinamica infernale.Mumbai, dunque, segna una tappa fondamentale in questa vicenda, perché ora l’Isi ha passato il segno, perché ora è evidente che né Zerdari, né Gilani, né il generale Kayani (su cui gli americani puntano tutte le loro carte, anche perché controlla materialmente l’arsenale atomico) riescono a controllarne l’operato. E’ infatti evidente che gli attentatori sono in maggior parte indiani e che indiana è la dinamica profonda di quella follia, ma senza l’appoggio logistico e operativo pakistano –vedi l’eccezionale addestramento militare dei terroristi- il risultato sarebbe stato infinitamente minore.
Questo è dunque il primo rebus che si troverà davanti Barack Obama il 21 gennaio prossimo: come venire a capo di una cancerosa crisi pakistana in cui il centro del carcinoma è proprio in una parte delle forze armate e dei servizi di un paese dotato di bomba atomica.Quando in campagna elettorale gli è stato chiesto cosa avrebbe fatto nel caso l’arsenale atomico pakistano sfuggisse al controllo del governo civile di Islamabad, Obama promise un immediato intervento militare statunitense in Pakistan, anche unilaterale, se necessario.Mumbai segna un passo in avanti verso questo scenario.
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