Ci sono storie che si trasformano in leggende, racconti da tramandare ai posteri, fotografie che il tempo non riuscirà mai a sbiadire. Un goal, una corsa a perdifiato, migliaia di visi che si sono lasciati alle spalle l'attesa, la tensione, la paura.
Ci sono istanti che si avvitano alla nostra storia, alla nostra vita, alle nostre emozioni. Momenti che solo chi ha cuore può comprendere.
I brividi iniziali, legati all'atmosfera che solo la competizione più antica del mondo può regalare, si sono tramutati in un freddo glaciale, quando i ragazzi di Steve Bruce c'hanno messo sotto, per due volte, in appena otto minuti.
Gli scheletri sono comparsi, aggredendoci, rubandoci l'anima. Spaesati, incapacitati a comprendere cosa stava succedendo ci siamo affidati al nostro essere, alla nostra cultura, al nostro modo di intendere il football. Abbiamo creduto nell'impresa. Tutti, ognuno a suo modo.
Vincevano i Tigers, cantavano i Gooners. Questo c'ha legati, indissolubilmente. Stavamo genuflessi, il goal di Santino c'ha rimesso in piedi.
In quell'istante ho pensato ai nostri ragazzi in trasferta a Londra e a quelli rimasti in Italia davanti al televisore, ho immaginato quelli presenti nei Pub della costa Ovest statunitense, ho visto coloro che presenziavano le tribune del Wembley Stadium.
Una luce li ha irradiati, una passione li ha stretti idealmente.
C'era tutto il tempo per credere che niente è impossibile. L'AFC1886 è passione, emozione, cuore, proprio perché fatto così. Prendere o lasciare.
Negli occhi di quell'uomo formatosi all'Università di Strasburgo si sono posate tutte le nostre speranze. Occhi lucidi, inespressivi, come fermi nel tempo. Li abbiamo trovato forza, coraggio, il desiderio di non mollare. Perché se al mondo c'è un'anima che ama questi colori più d'ogni altra, quella è di colui che per questo Club ha realizzato ciò che altri non possono nemmeno immaginare.
I minuti scorrevano veloci, l'ansia stava prendendo il sopravvento.
C'era voglia, desiderio. Mancava l'episodio, quel goal che avrebbe rimesso tutto in discussione, riportato il match in parità. Ma l'episodio tardava. Il goal non arrivava.
Poi il lampo, a ciel sereno. Di un ragazzo francese che ogni volta che è sceso in campo ha trapiantato nel proprio cuore l'essenza dell'essere Gunners. Il boato conseguente c'ha letteralmente spazzato via, facendo emergere in ognuno di noi la personalità più recondita, quell'aspetto che solo l'English Football è in grado di tirare fuori.
Come un'istantanea ho fermato nel tempo la felicità di tutti voi. Mi sono passati nella mente gli sguardi fieri, tronfi, gli abbracci sinceri, quelle mani alzate al cielo pronte a qualunque sacrificio in nome dell'Arsenal Football Club.
Il paradiso non era più così lontano. Quei trentanove gradini non erano più utopia.
Stanchezza e timore stavano prendendo il sopravvento. L'idea di provarci ancora era viva, più che mai. La paura di non arrivare sul podio più alto inconscia, ma presente.
Poi lui. Il gallese che tanti aveva fatto sognare, che pochi avevano vigliaccamente contestato, che tutti aveva messo d'accordo, esplodendo nell'anno di Ozil.
Quel pallone che chirurgicamente s'è infilato alla sinistra della porta difesa da Allan McGregor ha fatto letteralmente impazzire d i gioia la metà dello stadio a noi riservato.
Il ritorno alla realtà è stato quasi immediato. La figura di Paul Ashworth s'è impossessata dell'anima di tutti noi: mancano ancora dieci minuti.
I secondi non si muovevano più. Quel pallone girava come fosse un motore.
Inebriati da tutto quello che avevamo visto, vissuto e bevuto, rimanevamo pallidi e inermi. In attesa di quel fischio che c'avrebbe consacrati, premiati, liberati in una gioia attesa nove lunghi anni.
Il triplice fischio c'ha aperto il cuore. Fiumi di lacrime hanno cominciato ad inondare le nostre maglie, le nostre sciarpe, i nostri visi. Occhi colmi di sentimento hanno rubato ogni momento.
Le parole sono state sostituite dal silenzio, i canti dall'emozione.
Ci si guardava, ci si abbracciava, senza realmente capire che eravamo diventati campioni.
Serviva qualcosa che lo testimoniasse.
Serviva l'ascesa dei celeberrimi 39 gradini per ritirare il trofeo, per scrivere l'ennesima pagina della nostra storia.
Su per quei magici trentanove gradini ci siamo saliti tutti.
Ci sono saliti i ragazzi, artefici di un cammino meraviglioso. Ci sono saliti Colin Lewin e Gary O'Driscoll, uomini ombra di un successo di squadra.
C'è salito Arsène. E per lui mi sono commosso, come mi sto commuovendo ora che lo sto scrivendo.
Un padre in mezzo ai suoi figli, la sua prole fiera di vederlo ancora una volta in alto, dove solo i più grandi meritano di stare.
Ha sopportato di tutto, ha sempre risposto come solo lui è in grado di fare. Con i risultati, sul campo.
Ma sopratutto ci siamo saliti noi. Gooners di pancia e di testa.
Li abbiamo calpestati ad uno ad uno, consapevoli che la storia c'avrebbe ricordato in eterno.
Siamo arrivati in alto, stringendo mai, indossando sciarpe.
Chi vicino a Wishere, chi abbracciato a Mertesacker, chi cantando insieme a Jenkinson.
Le mani su quella coppa le abbiamo messe tutti, meritatamente.
Quella coppa l'abbiamo alzata in cielo tutti, orgogliosamente.
Domani sarà un altro giorno.
Ci sarà una nuova stagione da vivere, un campionato da giocare. Ci sarà un terzo turno di Fa Cup da affrontare. Una finale di Community Shield da onorare.
Ma oggi no. Oggi ci siamo solo noi.
Quelli che hanno vinto l'attesa, la tensione, la paura. Quelli che hanno macinato chilometri per stare vicino ad amici, conoscenti, sconosciuti. Quelli che si sono colorati il viso, quelli che hanno tatuato sulla pelle una Coppa d'Inghilterra. Quelli che hanno festeggiato per tutta la notte: Quelli che hanno bevuto per tutta la notte.
Quelli che sono ancora svegli e che non andranno a dormire, perché un sogno non merita di essere fermato.
Noi. Quelli dell'AFC!
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