Sono troppe, e di ogni genere, le emozioni che si sono consumate al AT&T Center di San Antonio.
Al termine dell'ultima e decisiva gara che ha consacrato gli Spurs campioni Nba per l'anno 2014.
Emozioni che giungono copiose da ognuno dei protagonisti scesi in campo, compreso LeBron, che nonostante i suoi 31 punti, 10 rimbalzi e 5 assist s'è dovuto arrendere alla squadra migliore, a coloro che hanno insindacabilmente espresso la migliore pallacanestro e la voglia di vendicare quanto accaduto non meno di dodici mesi fa.
Emozionante è stata la voce rotta di Tim Duncan, che al cospetto di Doris Burke non ha nascosto tutta la sua gioia. Quegli occhi bagnati hanno raccontato più di mille parole, quell'emozione ha probabilmente (ma non statene certi) decretato la fine di una carriera incredibile, giunta all'ultimo atto nel migliore dei modi. Se rivedremo Tim ad ottobre non è dato da sapere, se non lo rivedremo ce lo ricorderemo così: cinque volte campione con i San Antonio Spurs.
Nominare Duncan significa nominare Parker e Ginobili. Il primo, nonostante uno 0-10 iniziale, non s'è perso d'animo, non ha mai mollato un solo centimetro, ha sapientemente ascoltato le parole di Gregg che l'hanno spinto a chiudere i suoi 36' con 16 punti e un 7-18 dal campo. Emozionato, certo, il buon Tony, che al fischio della sirena s'è lasciato andare in un pianto liberatorio, abbracciando chiunque incontrasse.
Del ragazzo di Bahía Blanca ne avevo abbondantemente scritto al termine di gara-1, nominandolo Mvp di quella meravigliosa partita. E chi se non lui, al termine di gara-5, poteva riprendersi tale nomina (da dividere per una serie infinita di motivi con Patty Mills). L'inizio gara aveva visto un LeBron come poche volte c'era capitato di vedere e quel 17-4 di parziale avrebbe potuto condizionare, e cambiare, le sorti della partita, della serie. Il Time Out di Popovich portava in campo Manu, e da quel momento iniziava la grande rimonta Spurs fino al completamento di sorpasso divenuto con i minuti seguenti l'apoteosi di tutta San Antonio. I 19 punti messi a referto (3-6 dall'arco), i 4 assist, i 4 rimbalzi hanno confermato una volta di più la classe, il talento e la capacità di essere presente nei momenti che contano ad uno dei migliori giocatori di sempre dell'intera pallacanestro mondiale. Ma è stata quella schiacciata in faccia a tutta Miami che ha cambiato il corso della partita, della serie, della storia. Un gesto che ha esaltato oltremodo l'argentino, un gesto capace di trascinare tutta San Antonio al più meritato dei titoli.
Sul parquet del AT&T Center il gesto forse più bello dell'intera notte. Quell'abbraccio a Marianela che c'ha riportato indietro di vent'anni, quando nella Pampa argentina iniziò una delle storie d'amore più belle che il panorama sportivo ricordi, e che ancora oggi pulsa forte nelle vene.
Finiti i Big Three texani qualcuno potrebbe dire che basta così, che non servono ulteriori elogi alla vittoria di San Antonio, ma il bello comincia proprio adesso.
Diciassette punti, 5-8 dall'arco, ma soprattutto una determinazione e una convinzione che si sono impossessate del #8 argento-oro facendogli trascinare fino al delirio i 18581 spettatori paganti dell'arena texana.
E poi ancora Boris Diaw, l'uomo più decisivo in corso d'opera degli ultimi trent'anni di finali Nba. Da quanto Gregg ha deciso di metterlo in quintetto San Antonio ha letteralmente cambiato marcia, radendo al suolo tutto quello che incontrava davanti. Pochi i punti nella serata del trionfo (5), ma una presenza costante sia nella fase difensiva (8 rimbalzi su 9), che in quella offensiva (6 assist).
Impossibile non parlare anche di Danny Green, ieri notte "freddo" nelle mani ma sempre attento in difesa, o di Tiago Splitter, utilissimo come l'acqua nel deserto ogni qual volta è stato chiamato a rispondere presente. Minuti finali di passerella anche per Matt Bonner, per Jeff Ayres, per Cory Joseph, per Aron Baynes. Tutti utili alla causa, tutti tenuti sempre nella massima considerazione da coach Popovich. Questo sicuramente uno dei segreti del trionfo San Antonio.
Per la conclusione mi sono tenuto tre nomi.
Il primo è di un italiano, proveniente da San Giovanni in Persiceto, capace non solo di ritagliarsi dei minuti, ma anche di andare a segno nelle cinque gare che sono servite per aggiudicare il titolo 2014.
Solo vent'anni anni fa era impensabile immaginare un italiano in campo su di un parquet Nba. Ieri notte, oggi, quell'italiano non solo l'ha calpestato, non solo s'è tolto lo sfizio di vincere a fine gennaio la gara dei 3 punti nel week-end dell'All-Stars Game, ma s'è messo al dito l'anello più prestigioso che una competizione sportiva possa mettere in palio.
Con Marco, con Marco Belinelli, ieri sera in Texas c'eravamo un po' tutti noi. Orgogliosi e tronfi.
Me ne rimane due, ed è difficile dare una precedenza.
Sposo la linea del momento, di quanto accaduto nelle ultime ore.
Gregg, di momenti, ne ha vissuti tanti, tantissimi. Con i suoi diciotto anni alla guida degli Spurs s'è conquistato la leadership degli allenatori, di tutti e quattro i maggiori sport americani, più longevi di sempre. Diciotto anni che sono valsi 5 titoli e Nba e vari riconoscimenti personali. Diciotto anni passati ad insegnare pallacanestro. Schemi, spaziature, attacco e difesa. Ma soprattutto la vita. Da quest'uomo hanno imparato tutti. I suoi giocatori, i suoi avversari, gli addetti ai lavori, le persone che hanno saputo prima comprenderlo e poi amarlo. Un uomo capace di vincere ma soprattutto capace di perdere. Qualità che l'hanno portato, quando nessuno c'avrebbe più scommesso un dollaro, a sedersi sul gradino più alto. Da numero uno indiscusso della pallacanestro moderna.
L'epilogo non poteva che toccare a lui: 29 giugno 1991. Il terzo più giovane giocatore della storia ad aggiudicarsi il titolo di Mvp delle Finals Nba: Kawhi Leonard.
Ha letteralmente spaccato la serie in due, ha letteralmente deciso come sarebbe andata a finire gara-3, gara-4 e anche gara-5.
Ha dominato ogni centimetro di campo a Miami, facendo espugnare per due volte consecutive la Triple A. Ha dispensato poesia pura nella decisiva a San Antonio, con a referto 22 punti e 10 rimbalzi.
Da "coniglio bagnato" s'è trasformato in un rapace che ha aggredito tutto e tutti, in primis un certo LeBron. Esplosione di talento e aggressività che hanno annichilito ogni tentativo di Miami di rimanere in partita. Non è un caso che ho lasciato per il finale lui, Marco e Gregg.
Tony, Manu e Tim tra due anni, con molta probabilità, non li vedremo più insieme. La carta d'identità non fa prigionieri. Ma Marco, Kwahi e Gregg, insieme a Danny, Patty e Tiago, sono già il futuro degli Spurs, e questa la dice lunga sulla capacità di organizzazione e programmazione che si riesce a sviluppare da quasi quattro lustri nella città texana.
Ora è tutto finito. I riflettori si sono spenti. E' stata una stagione meravigliosa, spettacolare, e per certi versi capace di generare quello che vedremo nei prossimi anni.
Abbiamo passato notti in piedi, ci siamo esaltati per i gesti tecnici e per quelli umani, facendoci travolgere da emozioni che mai dimenticheremo e che per sempre ci trascineremo dietro.
Tra pochi mesi si ripartirà, dopo un Draft che terrà banco tra pochi giorni e una pre-season che non vediamo l'ora che cominci.
Saremo tutti presenti, pronti a vivere altri otto mesi di pura adrenalina.
I Love This Game!
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