La formula, il segreto, gli ingredienti sempre gli stessi, dalla notte dei tempi: un basso, una chitarra, una batteria e un front-man. Stop. Non serve altro. Soprattutto quando si possiede il talento, quando al potere si mette la fantasia, quando per fare musica e trascinare con se tutto e tutti basta essere e non apparire. E la scenografia "minimal" stava li a certificarlo.
Se poi le quattro corde vengono pizzicate da Geezer, le sei sono magicamente toccate da Tony e il rullante e la grancassa picchiati da Tommy tutto torna, tutto assume un senso.
E poi lui. Che definire front-man o qualsiasi altro appellativo per descriverlo non renderebbe merito al tipo di presenza e di appeal che riesce ad avere nel momento in cui compare davanti al proprio pubblico.
E si. Perché Ozzy se non ci fosse non sarebbe lo stesso, e difficilmente si riuscirebbe ad inventarlo, a crearlo come una Birmingham invernale del 1948 fu in grado di mettere al mondo.
Quindici ore tirate, comprensive di viaggio di andata e ritorno e adrenalina allo stato puro, non si regalano a chiunque, non si fanno tanto per fare. Dietro c'è una storia, la storia dell'Heavy Metal.
Il tuffo all'interno dell'Arena è di quelli che lasciano il segno, il guardare a 360° il contorno la risposta al perché i Sabbath, Ozzy, sono ancora li. Quarantasei anni dopo.
Ancora oggi come non pensare a quel negozio di dischi sito ad Aston in cui un giovanissimo Osbourne affisse un cartello con su scritto "Ozzy Zig Needs Gig – has own PA".
Qualunque entità superiore a noi salvi per sempre quella mano che quel giorno scrisse quelle parole.
La seconda visita in Italia di Ozzy, la prima fu nel 1998, raccoglieva l'attesa di migliaia di fans giunti da tutta la penisola in una soleggiata e vivibile Casalecchio di Reno. Generazioni a confronto che si sono unite per l'unico appuntamento che la band di Birmingham ha deciso di donare al Bel Paese.
Coloro che li hanno visti nascere, quelli che sono arrivati nel mentre il primo embrione dei Black Sabbath veniva la luce nell'ormai lontano 1966 e quelli che, come il primo figlio del sottoscritto, hanno imparato in fase postuma ad apprezzarli ed amarli.
Al termine delle superlative performance dei Reignwolf e soprattutto di Zakky Wylde e dei suoi Black Label Society, si è alzato all'interno della Unipol Arena un coro unanime: "Ozzy, Ozzy, Ozzy".
Idolatrato, venerato, atteso. Come pochi.
Quando l'enorme velo nero che copriva l'intera struttura è calato ai piedi del palco, con esso è venuta giù l'intera arena e l'attacco di "War Pigs" ha rilasciato in tutti noi un'emozione che mai potrà andare via.
In quel preciso momento siamo entrati in quella dimensione dove tutto esiste e niente esiste. Rapiti, trascinati, senza che nessuno degli undici mila presenti opponesse la minima resistenza.
Tutti all'interno di quel sound che ha coinvolto milioni di persone, aprendo gli occhi sulle problematiche sociologiche di diverse generazioni.
S'è scritto tanto, e forse troppo, su cosa non sono stati i Sabbath, tralasciando, per interessi, politica, connivenze, i messaggi scritti e lanciati dalla band pioniera del Metal.
L’amarezza e la preoccupazione dei giovani occidentali per la sanguinosa guerra in Vietnam di "War Pigs", l'epico dramma di fantascienza che esplora con due decenni d’anticipo le sonorità malinconiche del grunge degli anni novanta di "Iron Man", il ritratto più impietoso degli effetti nefasti dell’eroina di "Hand Of Doom", l'epica del quotidiano dove il vero eroe è quello che fa i conti ogni giorno con una realtà insoddisfacente di "Fairies Wear Boots". Fino a "Black Sabbath", manifesto della loro estetica oscura e nichilista, con il quale si sono presentati al mondo del rock nel 1970. E dove da allora niente è stato più come prima.
Chiusa l'apertura di "War Pigs" e i ringraziamenti di Ozzy è iniziato un susseguirsi di ricordi avviati ad ognuno di noi. "Into The Void" ha dato il via a quasi due ore di storia dell'Heavy Metal e quando dal Gold Circle è partito in direzione palco un pipistrello di peluche raccolto da Ozzy e romanzescamente morso dallo stesso il pandemonio ha preso il sopravvento.
Tutti abbracciati, tutti insieme, tutti partecipi di un evento che negli anni a venire assumerà un valore che andrà oltre l'esserci stati.
A raccontarla proprio tutta avevo un certo timore. Nei giorni precedenti la partenza mi sono più volte chiesto quale Ozzy avrei visto. Logico non immaginarmelo negli anni in cui divorava letteralmente il palco, ma la "paura", per una mera questione anagrafica e di vita vissuta, di non vederlo carismatico come il suo personaggio è sempre stato c'era.
Sono bastati pochi istanti. E' bastato il suo salire sul palco, prendere il mano quel microfono e tutti i presagi sono stati spazzati via.
Ozzy c'era. Eccome se c'era. L'età inevitabilmente avanzata, i vizi di gioventù pagati ed evidenti, le movenze un po' ingessate ma la sua performance non ha lasciato rimpianti.
Affascinante, trascinatore come è sempre stato ha portato con se ogni anima presente nell'arena, inebriandole fino ai saluti finali.
Qui il nodo in gola ha preso il sopravvento. Ho sentito gonfiarsi gli occhi di emozione, quando insieme a Tony, Geezer e Tommy si è abbracciato per l'inchino finale.
Davanti a me, davanti a undicimila meravigliose anime, la storia della musica c'ha detto "Thank You!".
Un'istantanea che mi porterò per sempre dietro.
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