Il nostro è un popolo fatto così, una radice che nel corso della storia ha spianato la strada al ducetto di turno, eleggendo nell'ultimo secolo personaggi che hanno segnato indelebilmente l'intero Paese, producendo, a prescindere dall'appartenenza, danni che ci porteremo dietro per sempre.
Dal 1922 ad oggi la storia non ci ha insegnato niente. Se dalla tragedia del ventennio, passando per gobbi, nani e star hollywoodiane, si è giunti alle pagliacciate odierne l'evidenza e l'oggettività ci raccontano una cosa sola: tutti rappresentano (hanno rappresentato) quell'Italia come gl'italiani vorrebbero che fosse. L'ha rappresentata il Duce, quello con la "d" maiuscola, la DC di Giulio Andreotti, il Caimano nell'altro ventennio, Matteo I da Firenze prima di passare il testimone a Matteo II da Milano.
Tutti idolatrati, votati, resi intoccabili da un popolo che generazione dopo generazione ha visto in queste figure la soluzione a tutti i mali, la difesa dai nemici che ci hanno fatto credere di voler combattere.
La fotografia di una nazione che pur cambiando i protagonisti ha voluto mettere al centro una filosofia, una cultura, un modus vivendi e operandi di chi ci ha poi governato e usato per i personali scopi dittatoriali.
Tutto questo mi riconduce al monologo di Claudio Gioè nel capolavoro di Marco Tullio Giordana, I cento passi.
Una citazione che mi è parsa inevitabile, d'obbligo. Un passaggio che nel film dedicato alla vita e all'omicidio di Peppino Impastato, impegnato nella lotta alla mafia, ha voluto mettere in evidenza come i paventati cambiamenti, in Sicilia nello specifico ma in Italia nella sua complessità, spesso si siano scontrati e si scontrino con i proclami e con le parole espresse da questo o da quell'altro personaggio. Sicuramente con il pensiero di un popolo che nel corso dell'ultimo secolo, nonostante battaglie ed evidenze continua a ripetere ossessivamente gli stessi errori, per poi, vittimisticamente, rivendicare mancanze, assenze, negligenze, scandali e vergogne.
Il ducìsmo è una malattia che ci portiamo dietro perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace.
"Stamattina Peppino avrebbe dovuto tenere il comizio conclusivo della sua campagna elettorale.
Non ci sarà nessun comizio e non ci saranno più altre trasmissioni.
Peppino non c'è più, è morto, si è suicidato.
No, non sorprendetevi perché le cose sono andate veramente così.
Lo dicono i carabinieri, il magistrato lo dice.
Dice che hanno trovato un biglietto: "voglio abbandonare la politica e la vita".
Ecco questa sarebbe la prova del suicidio, la dimostrazione.
E lui per abbandonare la politica e la vita che cosa fa: se ne va alla ferrovia, comincia a sbattersi la testa contro un sasso, comincia a sporcare di sangue tutto intorno, poi si fascia il corpo con il tritolo e salta in aria sui binari.
Suicidio.
Come l'anarchico Pinelli che vola dalle finestre della questura di Milano oppure come l'editore Feltrinelli che salta in aria sui tralicci dell'Enel.
Tutti suicidi.
Questo leggerete domani sui giornali, questo vedrete alla televisione.
Anzi non leggerete proprio niente, perché domani stampa e televisione si occuperanno di un caso molto importante.
Il ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle brigate rosse.
E questa è una notizia che naturalmente fa impallidire tutto il resto.
Per cui chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia, ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato.
Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall'altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare.
Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino.
Domani ci saranno i funerali.
Voi non andateci, lasciamolo solo.
E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo.
Ma no perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace.
Noi siamo la mafia.
E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu ammiscato cu niente."
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